L'origine della crisi
Quando si parla del problema del debito internazionale ci si riferisce alla forte esposizione debitoria dei Paesi in via di sviluppo verso creditori stranieri. Questo problema nasce con la prima crisi petrolifera del 1973. In quell'anno il prezzo del petrolio venne quadruplicato. Questo fece affluire una grandissima quantità di denaro nelle casse dei paesi produttori, i quali si trovarono con una liquidità largamente superiore al fabbisogno e alla capacità di spesa interna. La grandissima liquidità in esubero (i cosiddetti petrodollari) venne collocata, attraver-so le grandi banche d'affari internazionali, sul mercato finanziario mondiale e venne in particolare offerta ai Paesi in via di sviluppo, assetati di nuovi investimenti per creare infrastrutture per lo sviluppo.
In quelle condizioni indebitarsi era molto conveniente. I petrodollari avevano abbassato i tassi di interesse (più denaro è disponibile, più bassi saranno i prezzi, cioè gli interessi, che le banche chiederanno pur di collocarlo tra gli operatori) e contemporaneamente lo shock petrolifero aveva generato inflazione in tutto il mondo. In qualche caso l'inflazione superò i tassi di interesse, determinando tassi di interesse reali negativi. I Paesi in via di svilu-ppo, invitati ad indebitarsi, risposero prontamente.
In occasione della seconda crisi petrolifera del 1979, i prezzi del greggio rincararono addirittura di venti volte, spingendo verso l'alto con nuova forza l'inflazione nei paesi consumatori di petrolio, cioè, in tutti i paesi del mondo, industrializzati e in via di sviluppo. Questa volta, però, la presenza sui mercati finanziari di nuova liqui-dità da collocare non tenne bassi i tassi di interesse, perché negli Usa e in Gran Bretagna si stavano affermando le tesi neoliberiste dei monetaristi. Ronald Reagan e la signora Thatcher sposarono infatti le tesi di Milton Friedman e dei suoi seguaci, secondo i quali il male peggiore dell'economia è l'inflazione, che dipende stretta-mente dalla quantità di moneta in circolazione all'interno di una nazione. Secondo i monetaristi maggiore è la quantità di moneta disponibile e maggiore sarà la domanda di beni di consumo; alla maggiore domanda di con-sumi i produttori rispondono con aumenti di prezzo, cioè con inflazione; per combattere l'inflazione occorre quindi ridurre la quantità di moneta, e a questo risultato si giunge tenendo alti i tassi di interesse per rendere costoso il detenere moneta da usare per acquisti.
Per i paesi debitori questo fu particolarmente gravoso, perché i contratti erano stati sottoscritti a tassi variabili e da una fase iniziale di tassi di interesse annuali inferiori al 10% ci si trovò a pagare ogni anno interessi anche su-periori al 30%. Ma i Paesi in via di sviluppo, sia pure con fatica, riuscirono a far fronte all'aumento dei tassi. ciò che li mise in ginocchio fu l'impennata del dollaro.
Tra il 1979 e il 1982 la divisa americana aumentò il proprio valore rispetto a tutte le altre valute, fenomeno sen-za precedenti nella storia dell'economia. In Italia il dollaro passò da un valore di circa 500 lire nel 1978 a 2200 nel 1982. Per le monete del Sud del mondo l'aumento fu incommensurabilmente più elevato. Si pensi che in Brasile, ad esempio, l'apprezzamento del dollaro rispetto alla valuta nazionale fu in un solo anno del 1500 per cento!
I prestiti erano stati sottoscritti in dollari e questo rese proibitivo il servizio del debito. Un paese che si fosse in-debitato per 100 milioni di dollari con un cambio della propria moneta rispetto al dollaro di 1 a 1 (1$ = 1 peso): questo poteva aver programmato un servizio del debito di 10.000 dollari = 10.000 pesos annui (il servizio del debito è la somma degli interessi e della rata di restituzione del capitale). Supponiamo un tasso di interesse del 5%, cioè 5.000 dollari/pesos, e una rata di restituzione del capitale di 5.000 dollari/pesos. Con l'aumento dei tassi di interesse passiamo dal 5% al 25% che significa da 5.000 a 25.000 dollari! Ma con l'apprezzamento del dollaro il cambio passa da 1$ = 1 peso a 1$ = 10 pesos. I 5.000 dollari di rata di restituzione del capitale diventano 50.000 pesos e i 25.000 dollari di interesse 250.000 pesos. Il servizio del debito è diventato di 300.000 pesos l'anno!!! Una cifra tre volte superiore non al servizio del debito precedente ma addirittura al valore in pesos del denaro prestato.
Nessuno può restituire né servire debiti di questa entità e nell'estate del 1982 il Messico dichiarò la propria in-solvenza aprendo così la crisi dei Paesi in via di sviluppo.
Le cause collaterali
Altri fattori si composero a queste dinamiche, fattori che vedono responsabilità anche in chi operava nel mercato finanziario e nelle classi dirigenti di molti paesi del Sud.
Innanzi tutto in molti casi, soprattutto dopo il 1978, molti Paesi in via di sviluppo vennero spinti a sottoscrivere prestiti quando era ampiamente prevedibile che l'onere del servizio del debito era largamente superiore alle loro capacità di restituzione. Ma gli operatori finanziari erano pagati a provvigioni sugli ammontari sottoscritti, senza alcuna penalità in caso di insolvenza del debitore... In molti paesi poi, per l'utilizzo dei soldi prestati, vennero proposti modelli di sviluppo che scimmiottavano quelli del Nord senza tenere conto della caratteristiche locali (anche solo dal punto di vista della formazione professionale: non si può impiantare "qualunque" impresa industriale in "qualunque" sito senza progettare gli interventi necessari perché quell'impianto possa essere mantenuto in funzione e in efficienza, senza tenere conto delle persone che lo dovranno mantenere). Un capitolo grave inoltre è quello dello sperpero del denaro ricevuto in spese militari, insieme a quello della fuga dei capitali, cioè il vero e proprio furto e trasferimento al Nord dei capitali ricevuti in prestito operato da diversi rappresentanti delle classi dirigenti del Sud.
Infine in alcuni casi i soldi vennero destinati al finanziamento del consumo anziché a investimenti di sviluppo. Venivano ridotti, cioè, con finanziamenti pubblici, i prezzi dei beni di prima necessità, troppo cari per molta parte della popolazione. In casi non rari invece il finanziamento al consumo fu addirittura un finanziamento ai consumi delle classi dirigenti, senza alcuno scopo sociale.
La somma di questi fattori determinò la crisi che perdura tuttora, sottraendo notevoli risorse allo sviluppo. Si pensi che il totale delle somme pagate per interessi dai debitori ai creditori è superiore di svariate volte, a secon-da dei paesi, all'ammontare del capitale prestato, senza contare poi gli effetti perversi della contabilità del debito tenuta solo in dollari che rende apparentemente i Paesi in via di sviluppo ancora debitori, mentre il calcolo con unità di monete diverse dal dollaro mostra che la maggior parte dei debiti sono già stati restituiti.
Chi paga realmente il prezzo del debito?
Oggi i crediti che le grandi banche d'affari avevano verso i Paesi in via di sviluppo sono stati in gran parte as-sorbiti dagli Stati del Nord, che sono divenuti così i principali creditori. Anche i governi simbolo del neoliberis-mo, in sostanza, hanno provveduto alla "pubblicizzazione delle perdite" per evitare il collasso delle principali banche da cui negli anni Ottanta dipendeva l'intero sistema finanziario occidentale. I governi del Nord, da quan-do sono divenuti i creditori determinanti dei Paesi in via di sviluppo, hanno delegato al Fondo Monetario Inter-nazionale e alla Banca Mondiale la guida della gestione del rapporto coi debitori. I governi debitori hanno quindi come interlocutori principali le cosiddette Ifi (istituzioni Finanziarie Internazionali), che in realtà, poiché sono organismi formati da più Stati, subiscono maggiormente la pressione politica delle lobbie finanziarie internazionali, che non quella dei governi che li compongono.
I Paesi in via di sviluppo hanno tuttora bisogno di nuovi flussi di denaro. Condizione posta dalle Ifi per accedere a nuovi prestiti è però il pagamento degli interessi sui debiti pregressi. Ma questo che significa per un paese debitore?
Il peso del debito estero grava sulla capacità di spesa dello Stato. Un paese indebitato deve pagare gli interessi e programmare la restituzione del capitale. Se ha investito bene i soldi, le risorse per fare questo gli arriveranno proprio dalla remunerazione dell'investimento che ha realizzato. Se ha speso male i soldi presi a prestito dovrà trovare altre risorse.
Molti investimenti realizzati con i soldi ricevuti in prestito non danno più alcuna redditività. Peraltro nella ma-ggior parte dei casi il denaro è stato sprecato (o rubato come nel caso della fuga dei capitali). L'unica risorsa per pagare gli interessi è il prelievo fiscale. Ma con quelle entrate lo Stato deve provvedere alla spesa pubblica, cioè alla fornitura dei servizi di cui i cittadini hanno bisogno: scuola, sanità, polizia, giustizia, strade... Per servire il debito occorre ridurre la spesa pubblica nelle altre voci. Pagare il debito oggi significa strozzare la spesa sociale, che in molti paesi poveri è una parte rilevante della spesa pubblica. Se il governo usa il denaro che ha ricavato dalle tasse per pagare i debiti, ovviamente non ne avrà per pagare gli insegnanti o aprire nuove scuole o compra-re medicine per garantire a tutti i cittadini la possibilità di curarsi.
Vi è una altra risorsa, indiretta, per pagare il debito. Tanto più un paese esporta e tanto più facilmente dal reddito delle proprie esportazioni ricaverà risorse per il pagamento del debito estero, senza intaccare le risorse interne necessarie al sostentamento primario. O almeno questo è ciò che afferma l'ortodossia economica. Per questo i paesi poveri sono stati spesso forzati dalle Istituzioni finanziarie internazionali a investire nella produzione di beni da esportare. Di fatto il crollo delle loro monete ha fatto sì che il ricavato delle esportazioni risultasse spesso poco più che simbolico.