Umberto Chiarello, scj
Da qualche tempo sono in atto, nella Chiesa, esperienze nuove di collaborazione e condivisione tra religiosi e laici. Si tratta di esperienze che vanno da una collaborazione del tutto occasionale per singole iniziative di volontariato, a rapporti più stretti e profondi anche in fatto di vita spirituale e apostolica. Di questo si è occupato il convegno dell’Unione Superiori Generali che si è tenuto ad Ariccia (Roma) dal 24 al 27 novembre 1999.
Molti gli Istituti che vi hanno partecipato, e quindi molte e diverse anche le esperienze che sono state segnalate o descritte. Per cui solo una corretta chiave di lettura può consentire una valutazione abbastanza obiettiva di questo fenomeno.
La prima chiave di lettura è l’identità carismatica dell’Istituto, in pratica il suo identikit, che può essere una determinata attività a scopo pastorale (cura dei malati, educazione della gioventù, l’ideale missionario, ecc...), oppure una determinata spiritualità da vivere e far vivere. Nel primo caso ci potrebbe essere un semplice rapporto di lavoro, mentre nel secondo caso si tratterà di vera condivisione dei valori che sono tipici di quella spiritualità.
Una seconda chiave di lettura è data dalle modalità previste o proposte dallo stesso Fondatore dell’Istituto; ma anche qui la collaborazione con i laici può riguardare solo l’attività apostolica o anche la condivisione della spiritualità. In ogni caso, sotto lo stesso Ordine o Istituto, oltre ai religiosi, che sono come il ceppo vitale, possono crescere dei rami autonomi e distinti, ma associati all’Istituto del quale condividono il carisma. Basta pensare ai Terz’Ordini che si rifanno agli Ordini Mendicanti e, in tempi più recenti, la Società di Maria, la Famiglia Salesiana e rispettivi collaboratori associati, la Pia Società di S. Paolo e le sue articolazioni.
Questo comporta una variegata terminologia per le persone: oblati, terziari, famuli, associati, cooperatori, confratelli; e per il gruppo: unione, famiglia, fraternità...
Si parla di “associazione” spirituale quando si partecipa ai beni spirituali della famiglia religiosa; di “sostegno”, quando si sostengono le “opere” dell’istituto o si collabora all’apostolato.
Oggi c’è una domanda forte, da parte dei laici, sia di collaborare alla missione, sia di condividere la spiritualità e di partecipare al carisma dell’istituto. A questa domanda possiamo rispondere offrendo soluzioni antiche, e che si collegano a una certa immagine di chiesa e della vita religiosa, oppure trovare soluzioni nuove, ancora da inventare, ma che fanno riferimento all’ecclesiologia conciliare e post-conciliare. In ogni caso, le soluzioni rispondono sempre a un preciso quadro teologico che si rifà in particolare a quattro principi:
a. L’ecclesiologia. “Nella Chiesa-Comunione gli stati di vita sono tra loro così collegati da essere ordinati l’uno all’altro. Certamente comune, anzi unico è il loro significato profondo: quello di essere modalità secondo cui vivere l’eguale dignità cristiana e l’universale vocazione alla santità nella perfezione dell’amore. Sono modalità insieme diverse e complementari, sicché ciascuna di esse ha una sua origine e inconfondibile fisionomia e, nello stesso tempo, ciascuna di esse si pone in relazione con le altre... Tutti gli stati di vita, sia nel loro insieme, sia ciascuno di essi in rapporto agli altri, sono al servizio della crescita della Chiesa, sono modalità diverse che si unificano profondamente nel ‘mistero di comunione’ della Chiesa e che si coordinano dinamicamente nella sua unica missione” (cf L 55). Si parla di pari dignità fra tutti e di complementarità delle vocazioni; di circolarità comunionale fra tutti gli stati di vita.
b. La missione. Se si parte dalla missione di Cristo, che è di instaurare il Regno nel mondo, tutto il Popolo di Dio è “sacramento” si salvezza, e cioè segno e strumento; tutti i cristiani sono chiamati alla missione. Allora sacerdoti e religiosi sono tutti a servizio del Popolo di Dio, perché anche il laico deve manifestare la sua sacramentalità. Così la “secolarità” del laico è segno del regno di Dio come strumento, in quanto opera per la promozione dei valori del Regno, creando le condizioni umane per la pace, la giustizia, la libertà, la dignità, la fraternità, la solidarietà, l’unità, il dialogo. La “consacrazione” del religioso è segno del Regno di Dio per il suo significato, in quanto il religioso opera per i valori escatologici del Regno, quando cioè il Cristo “consegnerà il Regno a Dio Padre”. La vita consacrata esercita così un ruolo “simbolico, critico e trasformatore” nella società.
Se si parte solo dalla missione della Chiesa, invece, c’è il rischio che essa si esaurisca nella “plantatio ecclesiae”. In questa “plantatio”, il “munus” gerarchico fa la parte del padrone; i religiosi sono gli agricoltori e i laici i semplici braccianti.
c. La teologia della vita religiosa, poi, dovrà optare fra: carisma del fondatore come dono per la Chiesa, oppure come eredità-appannaggio dell’istituto. Se è vista come dono per la Chiesa, esso può essere assunto direttamente da altri, in istituti consacrati, o anche direttamente dai laici nelle loro rispettive aggregazioni. Se, invece, è un carisma-eredità dell’istituto, allora esso rischia di essere monopolizzato dall’istituto stesso e gestito in autarchia. Ma partendo dall’ecclesiologia di Chiesa-Comunione e dal carisma dono per la Chiesa, ne risulta che l’istituto, nel rapporto con i laici, deve mettersi in situazione di “statu nascenti”. L’istituto è solo una delle tante possibili realizzazioni del carisma. La domanda dei laici, di piena partecipazione al carisma e di associazione all’istituto e alla sua vita comunitaria, è perciò una sfida per l’istituto stesso, che lo costringe a rivedere la sua strutturazione giuridica. Se, invece, il carisma fosse solo per l’istituto, allora sarebbe consequenziale la difesa dell’attuale situazione istituzionale.
d. Infine la teologia del laicato. Dovrebbe essere acquisito il dato conciliare dell’universale vocazione alla santità secondo il proprio stato di vita, come esigenza battesimale; come pure la complementarità delle vocazioni e degli stati di vita. Ne consegue che il ruolo dei laici è di essere protagonisti (partners) nella missione di Cristo per l’instaurazione del Regno nel mondo. A meno che non si continui a considerare i laici come semplici esecutori degli ordini della gerarchia e aiutanti; o tutt’al più, da parte di noi religiosi, dei collaboratori qualificati.
Il protagonismo dei laici è nella dimensione secolare, loro propria anche se non esclusiva; i laici offrono ai religiosi il contributo specifico della loro “secolarità”. I religiosi costituiscono, per i laici, il richiamo “che questo mondo può essere trasformato solo con lo spirito delle beatitudini”, e in questo offrono ai laici il contributo della loro “consacrazione”.
I rapporti laici e religiosi, nei diversi istituti, vengono considerati a differenti livelli. Si possono schematizzare come: collaborazione nella missione, condivisione della spiritualità, partecipazione al carisma, associazione all’istituto.
1. La collaborazione nella missione si articola secondo diversi gradi, secondo l’attività che l’istituto svolge nella Chiesa e il tipo di collaborazione che il laico intende prestare.
Una prima forma di collaborazione si riscontra nel “volontariato”. In genere sono giovani che decidono di dedicare alcuni anni della vita all’aiuto al prossimo: come assistenza sociale agli emarginati, giustizia sociale, promozione umana, sviluppo agricolo e artigianale... A titolo personale o come membri di organismi di volontariato, questi giovani collaborano con i religiosi nelle opere dell’istituto, in patria o nelle missioni. Essi prestano il loro servizio, senza essere troppo interessati all’ispirazione carismatica dell’istituto religioso. Organismi di volontariato sono, ad esempio, le ONG e le Associazioni di Volontariato fondate dagli stessi istituti religiosi.
Negli USA, vi è il “Corpo Volontario” promosso dai gesuiti e gli “Associati della Santa Croce” retti dalla Congregazione della Santa Croce. Sono giovani ventenni, con una buona istruzione, che collaborano per un periodo determinato nell’apostolato dell’istituto religioso, con un servizio di promozione umana e di giustizia sociale. Ricevono dall’istituto religioso un sussidio finanziario per coprire le spese vive.
Sul piano della collaborazione ancora, vi sono molti operatori pastorali nelle parrocchie e in opere gestite da religiosi. Si tratta di collaborazione nei servizi sociali o pastorali.
Nella gestione di ospedali, i laici professionisti vengono considerati come “collaboratori” alla missione dell’Ordine religioso, quando il laico è interessato anche all’ispirazione carismatica. Allora c’è uno scambio di doni: il laico offre la sua professionalità, il religioso offre lo spirito di misericordia (buon Samaritano). Lo stesso avviene nella gestione delle scuole: il laico apporta la sua specializzazione specifica, il religioso lo spirito educativo del suo fondatore.
In questi due casi, gioca molto oggi il calo numerico dei religiosi, non più in grado di gestire tutti gli ospedali e le scuole dell’Ordine. Per non dovere chiudere i battenti, è giocoforza assumere laici stipendiati. Ma succede che alcuni laici, considerando il loro impiego non semplicemente un mestiere ma come professione e missione, chiedono ai religiosi di condividere anche la loro ispirazione carismatica, partecipando a stages di formazione. È quanto sta succedendo ai Fratelli delle Scuole Cristiane; le cui scuole, gestite da tali laici, vengono denominate “Scuole lasalliane”. È quanto sta succedendo con gli Ordini ospedalieri. Questi professionisti vengono qualificati a giusto titolo “Collaboratori laici” dell’istituto nell’attività apostolica. Ma se il laico professionista non è interessato all’ispirazione carismatica dell’Ordine religioso, o addirittura è ateo, si può ancora qualificarlo come “Collaboratore laico”? Non si tratta, invece, di semplice prestazione professionale di un dipendente, regolarmente retribuito?
Nella missione “ad gentes”, alcuni laici riscoprono la loro vocazione di annunciatori del vangelo; la loro collaborazione, come catechisti o operatori pastorali con gli Istituti missionari, anche se solo per alcuni anni, li aiuta a crescere come cristiani nelle comune vocazione missionaria.
2. Condivisione della spiritualità. Diversi istituti religiosi si qualificano nella Chiesa, non tanto per un’attività specifica quanto per la spiritualità, che in essi si vive. La spiritualità deriva dal carisma del fondatore e dall’esperienza di fede dell’istituto. Anche se qualsiasi spiritualità è contestualizzata in un periodo storico ed è condizionata da influssi culturali, tuttavia essa costituisce il modo concreto di vivere oggi il carisma del fondatore. Per questi istituti, il laico volontario o il collaboratore viene caratterizzato più dalla condivisione della spiritualità che dalla collaborazione ad attività apostoliche.
La condivisione di spiritualità è una esigenza della vocazione universale alla santità, è un cammino di santità al quale il laico si sente chiamato. È una vera “vocazione”, alla quale si corrisponde con un “tirocinio formativo”, guidati da un maestro di spirito. Da qui l’esigenza, da parte del laico, di comunicare alla vita di preghiera dell’istituto, in una sua comunità; di nutrirsi di quella spiritualità ispiratrice del suo apostolato.
Si può condividere la spiritualità di un istituto, senza collaborare alla sua missione (ad esempio “Associati oranti”); si può collaborare alla missione di un istituto, senza condividerne la spiritualità (Collaboratori); come si può condividere spiritualità e collaborare alla missione. Sono tutte possibilità che si verificano nei rapporti tra laici e religiosi.
3. Partecipazione al carisma. Il carisma di un fondatore, dono dello Spirito alla Chiesa, è un dono unico e originale; è l’intuizione o ispirazione evangelica di un fondatore per rispondere a una esigenza pastorale della Chiesa. È come il codice genetico, che si trasmette dal fondatore ai discepoli, da conservare e interpretare con fedeltà creativa. Il carisma è uno strumento dello Spirito per segnalare nuovi percorsi e fedeltà audaci al Vangelo, a vantaggio di tutti.
In quanto dono dato alla chiesa, il carisma va accolto secondo la propria condizione: sacerdotale, religiosa o secolare. Non si tratta di clericalizzare i laici e nemmeno di laicizzare i religiosi. Nella domanda odierna di partecipare al carisma di un fondatore, questi laici sono impegnati a scoprire e vivere la “dimensione laicale” del carisma, mentre, nell’istituto ne vive la “dimensione religiosa”. Così uno stesso carisma viene vissuto in forme e modi diversi: nella dimensione religiosa sacerdotale dall’istituto maschile sacerdotale, in dimensione di vita consacrata dagli istituti femminili, in dimensione secolare o laicale dal laico e dalle sue aggregazioni laicali.
4. Associazione all’istituto come membri, sia individualmente, sia come gruppo. La partecipazione ad un carisma comporta l’esigenza di continuità e di comunione forte e stabile; implica anche maggiore partecipazione alla vita dell’istituto religioso.
C’è oggi la domanda di laici di aderire pienamente alla vita di un istituto con legami stabili e riconosciuti. Questi laici associati non intendono però divenire religiosi di seconda categoria; intendono vivere la dimensione laicale del carisma, assumendone la piena responsabilità nell’attuazione del carisma. In questa situazione, la collaborazione alla missione, la condivisione alla spiritualità e la partecipazione al carisma di un istituto diventasse l’espressione autenticamente laicale del carisma del fondatore, vissuta in modo stabile.
Quali risposte dare a queste domande odierne?
Nella storia della vita religiosa si incontrano diverse soluzioni: dalla totale dipendenza alle varie branche dell’Ordine maschile (Terz’Ordine secolare e Istituti femminili), alla totale e piena autonomia fra i singoli Ordini, anche se uniti in comunione vitale nello stesso carisma.
Tipica è la storia della Famiglia francescana. Solo con Paolo VI, nel 1978, l’Ordine Francescano Secolare ha ottenuto piena autonomia dai tre rami dei Frati Minori (Francescani, Conventuali, Cappuccini) e dal Terz’Ordine regolare di San Francesco.
Interessante è anche la fondazione della “Società di Maria”. Agli inizi del secolo scorso, un gruppo di seminaristi di Lione progetta di realizzare un’opera denominata “Società di Maria” con 4 branche: sacerdoti (Padri Marianisti), suore (Suore Marianiste), laici (Terz’Ordine di Maria), fratelli (Fratelli Marianisti). Successivamente, si aggiungono, in Oceania, le “Suore missionarie della Società di Maria”. Tutti hanno l’obiettivo missionario dell’evangelizzazione e della riconciliazione. Il Terz’Ordine dei laici ha avuto un grande sviluppo, promuovendo la nascita di ulteriori gruppi laicali. Oggi, sotto il titolo generico di “Laici Marianisti”, si associano diversi gruppi con varia denominazione, secondo il tipo di lavoro o apostolato che essi svolgono o dell’ambiente in cui vivono e operano.
Ma alla domanda odierna dei laici, che chiedono di condividere la spiritualità, di partecipare al carisma e di associarsi all’istituto, non si possono dare risposte a partire dal passato quanto prospettare soluzioni, che si aprano al futuro ecclesiale.
Ma quali risposte?