VITA DELLA CONGREGAZIONE

altri martiri s.c.j.

Stefan Tertünte, scj

Come già si è visto degli articoli precedenti, il papa Giovanni Paolo II ha più volte ricordato che il martirio, come testimonianza della propria fede, non riguarda solo i primi secoli della storia della Chiesa, ma è anche una “realtà contemporanea”, e ha invitato le Chiese locali a recuperare la “memoria” dei loro martiri.

Questo tema ha preso ampio risalto anche per la nostra Famiglia Dehoniana con la beatificazione dei 233 martiri spagnoli che ha avuto luogo nei giorni 11 e 12 marzo 2001. Tra essi infatti figura anche il nome di Juan Maria de la Cruz (p. Mariano García Méndez), il primo “martire” della Congregazione e il primo dehoniano proclamato “beato”.

Ma dando la notizia di questa “beatificazione” il nostro Superiore Generale ha pubblicato anche una lista di altri confratelli scj che hanno testimoniato il Vangelo fino al martirio (cf “Dehoniana” 2001/1, pag. 43). La conoscenza di alcuni di loro è stata favorita con la pubblicazione di opuscoli o libri più o meno voluminosi, e anche con brevi “schede biografiche” via internet.

Nel contesto degli articoli precedenti, ci è parso opportuna ospitare, in questo quaderno di “Dehoniana”, alcune di quelle “schede biografiche”, dando spazio, naturalmente, ad alcune tra le figure meno conosciute. Per queste presentazioni ci serviamo ampiamente della pubblicazine di Bernhard Bothe scj “Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù Martiri”, ma anche di numerose altre fonti.

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Vittime del terrore nazista

P. Wampach scj e P. Stoffels scj

“Sono nelle mani di Dio, un prete cattolico deve sempre esser orgoglioso di poter portare e condividere la croce del suo maestro. La mia consolazione sta nella preghiera e nell’unione con Dio e, non per ultimo, nel vostro amore per me” (campo di concentramento Dachau, 3.5.1942, P. Stoffels in una lettera a sua sorella).

P. Joseph Benedikt Stoffels (nato il 13.01.1895 a Itzig/Lussemburgo) e P. Nicolas Antonius Wampach (nato il 03.11.1909 a Bilsdorf/Lussemburgo), ambedue sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù, erano impegnati nella Missione Lussemburghese a Parigi, presso la futura chiesa parrocchiale di St. Joseph Artisan. P. Stoffels può esser considerato il fondatore della Missione Lussemburghese a Parigi, e siccome il lavoro pastorale presso i suoi connazionali prendeva dimensioni sempre più ampie, i suoi superiori nel 1938 mandarono P. Wampach per aiutarlo.

Scrive P. Bothe nel suo libretto ‘Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù Martiri’:

“Nel 1940, quando dopo l’invasione del Lussemburgo da parte dei tedeschi, molta gente scappava a Parigi, i due sacerdoti del Sacro Cuore insieme a un prete diocesano presero cura di questi profughi e dopo la sconfitta della Francia aiutarono migliaia di persone a ritornare in Lussemburgo. In un giornale si legge: ‘In questo lavoro puramente caritativo… la Gestapo [polizia segreta dei Nazisti] sospettò una rete di spionaggio’. Dopo diversi interrogatori e incarcerazioni fin dal 1940 i due padri venivano arrestati definitivamente il 7 marzo 1941, mandati nel campo di concentramento di Buchenwald e poi trasferiti nel campo di concentramento di Dachau in data 12 settembre 1941. Perdevano i loro nomi, diventavano numeri, incisi sulle loro braccia. P. Stoffels era il No 27179, P. Wampach il No 27178” (Bothe, p. 19).

Ufficialmente morirono di malattie: Bronchite, angina… Ai parenti di P. Stoffels furono spedite le ceneri del defunto. Come accadeva in numerosi casi simili, i funerali si dovette svolgere sotto la sorveglianza della Gestapo, quasi clandestinamente, senza suonare le campane, senza canti, senza partecipazione alcuna dei parrocchiali, il 31.08.1942.

“Solo 40 anni più tardi, in seguito a diverse ricerche, si venne a sapere che i due padri erano stati gasati nel castello di Hartheim (Austria) insieme a due altri preti lussemburghesi. Il castello si trova 265 km distante di Dachau nel piccolo paese austriaco di Alkoven vicino a Linz. Vi era istallata una camera a gas per diversi esperimenti. Il trasporto da Dachau a Hartheim durava ben quattro ore. Le finestre del pullman erano oscurate e il trasporto fu dichiarato ambulanza. Nel castello si procedeva come negli altri campi di concentramento. I detenuti furono costretti di spogliarsi. Sotto il pretesto di farsi fotografare venivano condotti nelle doccia e vi morivano per il gas che usciva dalle stesse docce” (Bothe, p. 21).

Il Castello di Hartheim, un castello idilliaco rinascimentale, aveva diversi compiti: Era integrato nel programmo di Eutanasia dei Nazisti e aggiunto ai campi di concentramento di Dachau e Mauthausen. Malati e disabili vi furono sottoposti a esperimenti crudeli e poi gasati. In questo contesto anche P. Stoffels, che soffriva di diverse malattie soprattutto ai polmoni, fu trasferito come invalido a Hartheim. Più tardi le camere a gas di Hartheim servirono per sperimentare diversi gas asfissianti per la guerra. Questo emerge anche da una lettera del dottore Rascher (della SS) al Reichsfuehrer Himmler dove si parla di Dachau e Hartheim (1942):

“Giacché i ‘trasporti di invalidi’ finiscono sempre in determinate camere [camere a gas, n.d.r.] chiedo se in queste camere non si potrà provare, con le persone ivi destinate, l’effetto dei diversi gas asfissianti? Finora la documentazione conosce soltanto gli esperimenti con animali e i rapporti su incidenti durante la produzione di questi gas”.

P. Stoffels fu ucciso in una delle camere a gas il 25.5.1942, P. Wampach il 12.8.1942.

Nella Chiesa di St. Joseph Artisan, rimasta a cura dei dehoniani fino agli anni 90, un monumento ricorda i due martiri. Vi si legge:

“In memoria aeterna… Coloro che hanno sofferto e sono morti per la fede, la patria, la giustizia e la libertà, non li dimenticheremo mai” (Bothe, p. 22).

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Una resistenza quasi sconosciuta

P. Kristiaan Hubertus Muermans scj (1909-1945)

“Rispondendo alla voce della sua patria umiliata, lavorò in numerosi gruppi di resistenza. Nel maggio 1944 cadde nelle mani della Gestapo (polizia segreta tedesca), che ce lo tolse per sempre” (Sint Unum, 1947).

Quel poco che sappiamo sulla vita di P. Muermans dalla Provincia Fiamminga, lo dobbiamo alle ricerche di P. Bothe. Nato il 9.3.1909, Kristiaan Muermans professò nel 1928 e fu ordinato prete nel 1933 a Louvain. Negli anni successivi insegnava alla nostra scuola apostolica di Tervuren. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu arruolato per l’esercito belga. Nel 1941 divenne prigioniero di guerra dei tedeschi. Scarcerato nel 1943 ritornò nel Belgio occupato e riprese il suo lavoro di professore a Tervuren e a Bruxelles.

Come risulta da una lettera di suo fratello, Wim Muermans, al P. Bothe, P. Kristiaan Muermans dopo il suo ritorno in Belgio fu attivo nella resistenza belga:

“Si dedicò alla stampa clandestina e aiutò molti giovani a nascondersi, impedendo alla Gestapo di arrestarli e di trasportarli nei campi di lavoro. Quando la Gestapo scoprì la sua attività, Muermans venne arrestato davanti ai suoi allievi. Dopo alcuni giorni nel carcere di Bruxelles fu trasferito successivamente nei campi di concentramento di Buchenwald, Ellrich, Harzungen e Dora ove morì il 16.12.1945, solo alcune settimane prima della liberazione del Lager da parte degli americani” (citato in Bernd Bothe, Martiri…, p. 31s.).

Sappiamo oggi che P. Muermans morì in uno dei 40 sottocampi del campo di concentramento Mittelbau-Dora, a Blankenburg. Dora servì dal 1943 al 1945 per la produzione di arme da guerra per l’esercito tedesco: Aeri, istallazioni anti-aeree, missili tipo V1 e V2, con i quali Hitler e la Wehrmacht speravano ancora di poter vincere la guerra. Queste armi erano prodotte in una immensa fabbrica sotterranea, la più grande a quell’epoca: un gigantesco tunnel, lungo 20 km e alto 30 metri. Su 60 000 prigionieri, trattati come schiavi di lavoro a Mittelbau-Dora e nei sottocampi, 20 000 morirono, fra questi anche P. Muermans; ma le circostanze della sua morte sono rimaste sconosciute.

Cinismo della storia: Appena liberato il campo di concentramento, i soldati americani mandarono tutti i missili trovati (più di 100) e qualche ingegnere tedesco negli Stati Uniti, ove furono elementi fondamentali per lo sviluppo dell’industria spaziale e di armi. Quando vennero i soldati sovietici, quattro mesi dopo gli americani, per impadronirsi del ex-lager, continuarono sullo stesso posto la produzione di missili tipo V2. Poi trasferirono gran parte della fabbrica in Russia per integrarla nella loro industria bellica.

P. Muermans non ci ha lasciato nessun documento scritto. Il suo impegno in favore dei giovani nella resistenza al prezzo della sua stessa vita, è il fondamento di quella memoria che André Jarlan, lui stesso ucciso in Cile, descrisse così:

“Coloro che fanno vivere sono quelli che offrono la loro vita, non quelli che la tolgono agli altri. Per noi la resurrezione non è un mito, ma proprio una realtà; questo evento, che noi celebriamo in ogni Eucaristia, ci conferma che vale la pena di dare la vita per gli altri e ci impegna a farlo.” (citato in Riccardi, Il secolo del martirio, p. 23) [cf. Bernd Bothe, Märtyrer der Herz-Jesu-Priester, p. 29-35].

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Vittime di crimini di guerra

gli olandesi dehoniani in Indonesia

La morte di 11 confratelli olandesi nel campo di concentramento giapponese di Muntok sull’isola di Banka/Indonesia negli anni 1944/45 fa parte di una storia assai complessa: s’incrociano i crimini di guerra dei giapponesi contro la popolazione civile dei paesi occupati, il crollo dell’Olanda come potere coloniale, la crescita del movimento di indipendenza indonesiano, l’insieme della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico e, non ultimo, la vita e il calvario dei singoli confratelli - tutto sommato, una rete di tanti elementi diversi e dipendenti l’uno dall’altro che rende fino a oggi difficile una considerazione adeguata sulla testimonianza di quei confratelli. E per questo spesso sono abbandonati all’oblio.

Il 15 febbraio 1942, le truppe giapponesi conquistano e occupano Palembang/Sumatra, isola dell’allora impero coloniale olandese. Mentre i militari olandesi e numerosi cittadini europei si trasferiscono all’isola di Giava, alcuni europei e tutti i religiosi e preti decidono di rimanere a Sumatra per continuare la loro missione presso le parrocchie, le scuole e gli ospedali. Dopo l’invasione giapponese in un primo momento l’opera missionaria non viene impedita. Questa situazione cambia radicalmente a partire dal 1 aprile 1942, giorno in cui tutti gli europei (civili e religiosi) vengono internati: gli uomini nella prigione di Palembang, le donne e i bambini in qualche residenza europea. Più tardi gli internati dovranno costruire con le proprie mani due campi di concentramento, rispettivamente uno per le donne e uno per gli uomini. Rimarranno in questi campi per ca. 17 mesi, e vivono il primo passo del loro calvario. I problemi principali in questo periodo erano dovuti alla scarsa alimentazione e alla mancanza di medicine. Solo dopo i primi morti sono ammesse le visite di dottori e la distribuzione di qualche medicina. Nei campi gli internati organizzano la loro vita quotidiana con scuola, attività culturali, funzioni religiosi, assemblee, etc.; però tutto nella misura di ciò che permette il filo spinato e l’esercito giapponese.

I giapponesi cercano di ottenere il sostegno della popolazione indigena, presentandosi come alleati nella lotta contro i poteri coloniali europei. Infatti la popolazione sumatrese si guarda bene dall’aiutare molto i civili europei e per la prima volta indonesiani accedono a incarichi amministrativi di alto livello per sostituire gli europei ormai allontanati. Col tempo questa strategia dei giapponesi contribuisce a rinforzare il movimento indipendentista indonesiano in una misura né prevista né gradita dagli stessi giapponesi. Così ben presto, dopo la fine della guerra, sarà proclamata l’indipendenza dell’Indonesia. Il cristianesimo viene presentato dai giapponesi come la religione dei colonialisti europei, si incoraggia invece il ritorno alle religioni tradizionali. Preti e religiosi al di là della loro funzione religiosa sono sospettati di essere elementi di disturbo alla disciplina imposta dai giapponesi.

Nel luglio/agosto del 1943 i giapponesi svolgono violenti rastrellamenti alla ricerca di presunti collaboratori con gli alleati. In seguito gli europei nei campi di concentramento di Palembang, e fra questi numerosi religiosi, vengono deportati nel campo di Muntok sull’isola di Banka: una zona arida con un clima difficile. Le porzioni di alimento quotidiano vanno da 100 a una massima di 300 grammi di riso. Questo trattamento era la solita prassi nei campi di concentramento dei giapponesi per indebolire e sterminare pian piano i prigionieri. La denutrizione fa sì che cessino le attività come scuola, asilo etc. Spesso gli internati sono addirittura troppo deboli per partecipare ai funerali di qualche loro defunto. Nel solo campo di Muntok in seguito a denutrizione muoiono ca. 250 uomini su 942; la quota delle donne è simile; quella dei bambini probabilmente superiore. Anche undici dehoniani olandesi non sopravvivono in questo luogo di terrore. Sono:

P. Heinrich Norbertus van Oort, P. Petrus Matthias Cobben, P. Franciscus Hofstad, P. Isidorus Gabriel Mikkers, P. Theodorus Thomas Kappers, P. Andreas Gebbing, P. Petrus Nicasius van Eyk, P. Francisucs Johannes v. Iersel, P. Wilhelmus Franciscus Hoffmann, Br. Mattheus Gerardus Schulte, Bruder Wilfridus Thedorus van der Werf.

Nel febbraio del 1945 i prigionieri sono trasferiti un’ultima volta in un altro campo, a Belalau (sud Sumatra), dove le condizioni di vita sono migliori, però muoiono altri 96 uomini e 59 donne, a seguito delle torture subite a Muntok.

Il 24 agosto 1945, dopo 40 mesi di internamento, il comandante giapponese del campo annuncia l’armistizio di Manila e quindi la fine della Seconda Guerra Mondiale nel Pacifico. Un dehoniano sopravissuto scrive:

“Per qualche momento tutti rimangono zitti. Poi esplode un ‘Hurra’ e scatta una catena di auguri reciproci. Nel nostro blocco di sacerdoti dopo la preghiera del rosario cantiamo un Te Deum spontaneo. Che meraviglioso Deo Gratias!”

Nella sua riflessione per una nuova comprensione di ‘martiri’ Andrea Riccardi scrive:

“Perché sono morti… Le motivazioni sono le più differenti e dipendono da paese a paese, dalle diverse stagioni storiche…Politiche e strategie si uniscono a spinte anticlericali o antireligiose o a semplici manifestazioni di violenza, banditismo, alla volontà di piegare coscienze libere e forti… Alla fine la memoria dei martiri non è un libro degli eroi, ma la storia di tante esistenze cristiane vissute con fede e stroncate dalla violenza.”

Fonti: De Missiepost, December 1945/Januari 1946, p. 11-18; Andrea Riccardi, Il secolo del martirio, Mondadori 2000; Bernd Bothe, Märtyrer der Herz-Jesu-Priester; etc.

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“... raggiungere con i nostri sacrifici il suo, cioè la croce…”

Tre dehoniani francesi in Camerun

In molte parti dell’Africa, gli anni dopo la Seconda Guerra Mondiale sono segnati da percorsi diversi verso l’indipendenza. Camerun è diviso in due territori fiduciari delle Nazioni Unite, affidati alla Francia e al Regno Unito. Fra il 1945 e il 1960, nella sola parte francese si costituiscono più di 100 partiti politici. Il movimento d’indipendenza prende sempre più forza negli anni 50, a volte accompagnato da scoppi di violenza. Nel 1958 la Francia conferisce l’indipendenza interna al Camerun, nel 1960 il Camerun diventa interamente indipendente e membro dell’ONU.

P. Héberlé, dehoniano francese in Camerun per più di 25 anni, aveva percepito la situazione nel Camerun d’allora:

“I camerunesi sono ben coscienti dei loro interessi comunitari. Vogliono arrivare a una vera emancipazione. Attribuiscono i problemi attuali non a una semplice crisi di crescita, ma piuttosto a un vizio fondamentale, una incapacità, una usurpazione della potenza tutrice… Ogni azione sociale e culturale da parte dell’Occidente viene denunciata come colonialismo aberrante, responsabile di tutti gli infortuni, perché non disinteressata. La Chiesa cattolica si è adattata perfettamente a queste nuovi circostanze, rimette le responsabilità primordiali nelle mani del clero autoctono. Si distacca assolutamente dalla politica occidentale. Denuncia le conseguenze nefaste del laicismo e del materialismo occidentale.” (lettera citata in: Via Catholique 28.8.1960)

P. Héberlé sostiene questo sviluppo. Nella stessa rivista viene chiamato “difensore fervente della libertà africana”. Ciò nonostante lui stesso e due altri dehoniani francesi (P. Musslin e Fr. Sarron) saranno vittime della violenza, che accompagna il movimento d’indipendenza.

Quando nel 1959 P. Héberlé si trova in vacanze in Francia, molti insistono di non ritornare più in Camerun. In una lettera del settembre 1959 spiega in questi termini la ragione del suo ritorno in Camerun, allora in una situazione di violenza generale e nazionalista, e nonostante tutti i consigli in contrario:

“Ho dovuto lottare contro me stesso, contro tutti gli affetti familiari, contro i miei e ciò fino alla fine. In tali circostanze ci rendiamo conto che bisogna totalmente morire a se stessi, rinunciare assolutamente a tutto per seguire Nostro Signore e portare la sua croce. Se sono ritornato nella mia Missione, l’ho fatto solo per compiere la volontà di Gesù Cristo, per essere insieme alle anime che Dio mi ha affidate e di cui sono responsabile davanti a lui. Per questo, nella situazione che stiamo vivendo, bisogna avere una fede incrollabile, una fiducia assoluta, una carità senza macchia… È il momento della prova per noi preti e per noi cristiani. Dio ci mette alla prova con il fuoco e con il sangue. Sia fatta la sua volontà: questo ci impegna a consacrarci totalmente al suo servizio e a raggiungere con i nostri sacrifici il suo, cioè la croce.” (9 settembre 1959).

Il 30 Agosto 1959 P. Musslin è ucciso nella sua missione. Il 29 Novembre 1959 è assaltata la missione di Banka-Banfang. In un primo momento P. Héberlé è colpito da una pallottola, poi decapitato. Fr. Sarron riesce a scappare, ma dopo poco tempo è trovato e anche lui decapitato. Insieme a loro un prete e un catechista camerunesi muoiono in questo attacco.

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L’opzione della solidarietà con i piccoli

P. Paulo Punt scj

Nel dicembre del 2000 giunse ai Dehoniani il seguente invito:

“Il Sindaco di Tamandaré (Pernambuco, Brasile), Paulo Guimarães dos Santos, si onora di invitarla alla concelebrazione che si terrà il 15 dicembre di quest’anno [2000] alle ore 18.00 nella Colonia dei Pescatori in occasione del 25° anniversario della morte di P. Paulo Punt. Dopo la Messa vi sarà la dedica a P. Paulo Punt della piazza e l’inaugurazione del monumento.”

Chi era questo confratello, di cui la memoria rimase tanto viva fra gli abitanti di Tamandaré? Ecco la testimonianza dei Padri Luis Carlos M. Sousa e Pedro Neefs della Provincia BS, un testo che ci avvicina all’esempio di un confratello che ha dato la vita in solidarietà con i piccoli. Certo bisogna approfondire molto di più la sua storia per mettere in evidenza il valore della sua testimonianza e diffonderla, a cominciare dagli stessi suoi confratelli. (N.d.r.)

Nato nel 1913 in Olanda, lasciò la sua patria nel 1936 per irrobustire la presenza SCJ nel Nordeste del Brasile. Dopo la sua ordinazione nel 1941 e il ministero in diverse parrocchie, nel 1968 “il p. Paulo iniziò un lavoro nuovo nel distretto di Tamandaré… e qui cominciò ad esercitare anche il mestiere di pescatore in forma professionale. Sensibile alla difficile situazione in cui vivevano i pescatori e i poveri, il p. Paulo li aiutò ad organizzarsi e fondò una cooperativa professionale. E giunse ad esserne il presidente… Essendo una città portuale, in Tamandaré era molto diffusa la pratica del contrabbando per bevande ed elettrodomestici. Il p. Paulo ne venne a conoscenza, e vedendo che i pescatori avrebbero potuto trovarsi coinvolti, pur senza colpa, e anche essere pregiudicati, diverse volte il p. Paulo denunciò il fatto e, per questo, cominciarono a crescere inimicizie e persecuzioni contro di lui.

Nel tentativo di allontanarlo dalla città fu accusato di essere comunista, accusa che in quel tempo, con la dittatura militare nel paese, era molto grave. Ma gli stessi organi della sicurezza nazionale riconobbero che si trattava di denunce infondate.

Diverse volte il p. Provinciale di allora, Pedro Neefs, temendo per la sua vita, cercò di persuadere il p. Paulo a lasciare Tamandaré; ma, pur sapendo del rischio mortale che correva, egli era convinte che quello era il suo posto…

Il p. Paulo si preoccupò anche di migliorare il livello educativo della gente di Tamandaré e aiutò a ricostruire la scuola pubblica che c’era in quella località, e della stessa fu direttore per molti anni.

Impegnato soprattutto per la vita, il p. Paulo non percepì la trama che sordidamente si andava tessendo contro di lui… Perché la sua morte non apparisse come un affare commissionato, coloro che vedevano e sentivano la presenza e l’aiuto di p. Paulo ai pescatori soprattutto nella linea dell’organizzazione e della coscientizzazione, insinuarono a un ex-ufficiale della polizia che la sua moglie lo stava tradendo col prete e, inoltre, che uno dei suoi due figli era figlio del prete…

Il 15 dicembre 1975… era una giornata di festa. Si celebrava la conclusione del corso del ginnasio locale. Sul finire del giorno, alla conclusione di tante solenni cerimonie, l’assassino si diresse deciso verso il p. Paulo e gli sparò tre colpi precisi e micidiali, che segnarono la fine della sua vita terrena.

Stranamente proprio le autorità della polizia locale si incaricarono di dare una versione passionale al crimine, ma nella memoria del popolo tutti sapevano che Amara (il nome dell’assassino) era stato usato per far tacere la voce del p. Paulo.

Nella storia di questa vita tutta dedita ai poveri, ai semplici e ai piccoli, è importante costatare come quelle pallottole assassine non riuscirono a estromettere il p. Paulo dalla memoria e dal cuore affettuoso della gente di Tamandaré. Lo dimostra il fatto che il 15 dicembre dell’anno 2000, cioè 25 anni dopo, il popolo tornò a riunirsi e a festeggiare il passaggio tra loro del p. Paulo. In segno di gratitudine, la prefettura della città ha costruito una piazza e vi ha collocato un busto del p. Paulo. E in occasione della S. Messa, celebrata proprio ne il recinto della ‘Cooperativa’ dei pescatori come per esprimere ciò che il p. Paulo rappresentò per la città, un pastore delle chiese protestanti fu presente alla celebrazione; e alla fine del rito diede una testimonianza non sospetta: disse che da poco tempo egli si trovava a Tamandaré e che, per conoscere la comunità alla quale era destinato e anche la storia della città, ci terrebbe a conoscere la figura del p. Paulo, perché anche i membri della sua Chiesa lo ricordavano con affetto.