Meeting Rencontre Incontro
03 - 11 -98
Homily - Homélie - Omelia
p. Virginio Bressanelli, scj


English - French - Italian

Omelia del Superiore Generale nella Messa di apertura (3 novembre 1998)

Fil 2, 5-11; Sal 21 (22), 26-32; Lc 14, 15-24

Memoria di S. Martino de Porres, religioso

Come è abitudine, incominciamo il nostro «Incontro di Superiori» con la Celebrazione Eucaristica. Non può essere diversamente, poiché essa è il momento culminante della vita di Cristo e della Chiesa. Lo è in forma determinante anche per noi, Sacerdoti del Sacro Cuore, data la specificità che l'Eucaristia ha nella nostra spiritualità di figli di Padre Dehon.

La Parola ora proclamata, intrecciandosi con la memoria liturgica di San Martino de Porres, viene ad illuminare l'evento dell'Incontro, offrendoci spunti, criteri e orientamenti che possono situare l'Incontro nella sua giusta dimensione e scopo.

È vero che non si deve scambiare l'Incontro per un ritiro spirituale: altra è la sua natura e finalità; si tratta di uno strumento di consultazione e di governo, indirizzato ad individuare e a fissare delle strategie per gestire in modo adeguato la realtà del nostro Istituto. Non si deve, tuttavia, perdere di vista il suo scopo finale, quello di rafforzare la vita della Congregazione e far fruttificare il suo carisma.

In questo senso, l'Incontro ci coinvolge tutti in un ampio sforzo di comunione tra noi e di impegno teologale nella nostra realtà personale più intima.

Perciò, l'intreccio tra memoria liturgica, parola proclamata ed evento congregazionale disegna un itinerario spirituale che vorrei proporvi con semplicità. Infatti, nessuna azione di governo è fine a se stessa e non è efficace senza la grazia di Dio. Inoltre, ogni azione di governo dovrà essere sempre subordinata e orientata a cercare la coerenza e la fedeltà di vita degli SCJ come persone e come comunità, in ordine alla loro missione, alla loro consacrazione e vocazione specifica.

Passo quindi a mettere in rilievo il messaggio che, a mio avviso, ci viene «oggi» dai tre elementi segnalati.

1. La parola proclamata

Nel testo ai Filippesi, Paolo ricorre ad un inno cristologico che presenta le diverse tappe del Mistero di Cristo: la sua preesistenza divina, l'annientamento dell'incarnazione e morte in croce, la glorificazione che Gli ha dato il Padre e l'adorazione che Gli viene tributata da tutto il creato.

Questo mistero diventa anche la via spirituale del credente, dell'uomo che segue Cristo. È il modo di vivere la vita cristiana nella comunità della Chiesa, rivestendo i sentimenti di Cristo e rinunciando a trattamenti e prerogative che, pur avendone il diritto, possono allontanare da un rapporto più fraterno, di umiltà, solidarietà e carità.

L'annientamento di Cristo Lo ha portato a farsi «servo-schiavo», «simile agli uomini», «umiliando se stesso», «facendosi obbediente fino alla morte di croce». E' il percorso di un servizio reso in modo incondizionato, sottomesso alla volontà altrui, fino alle conseguenze estreme di consumare così la propria vita in una condizione ritenuta perfino ignominiosa. Ma è proprio a questo punto che Cristo riceve la sua massima esaltazione e viene proclamato e riconosciuto «Signore» della Storia e dell'universo, a gloria del Padre.

L'Apostolo ci invita a rassomigliarci a Gesù, ad identificarci con Lui, proprio in questo cammino di annientamento e di amore, di morte e di vita. Questo mistero, anche se incomprensibile, è possibile viverlo, con la grazia di Dio. Una grazia che Dio offre a tutti, ma che viene accolta soltanto dai piccoli, dagli ultimi: i poveri in spirito.

Ci viene in aiuto il Vangelo odierno. Il Padre, nel suo amore, chiama tutti al Regno messianico, raffigurato nell'immagine di un festante banchetto. E' un disegno di amore che Dio porta avanti attraverso i suoi servi fedeli, inviati ripetute volte a tutti; ma è anche un disegno che non tutti comprendono e che quindi corre il rischio di essere rifiutato, subordinato ad altri affari ritenuti più importanti.

La storia della salvezza offre proprio il paradosso che i primi invitati, nella supposizione siano loro in grado di capire meglio le cose, rifiutano. Tra loro e l'offerta divina si frappongono altri valori, altre preoccupazioni, altre urgenze e priorità: il mio campo, i miei buoi, la mia moglie.

Invece, i poveri, gli storpi, i ciechi e i zoppi, quelli che sono sulla strada, cioè, quelli che non possono dire «questo è mio», gli umanamente inabili, gli esclusi, gli ultimi... questi vengono a riempire la casa della festa, entrano e si siedono a mangiare il pane nel Regno di Dio. «Dio ha scelto ciò che è stoltezza del mondo per confondere i sapienti; ciò che è debolezza per confondere i forti, ciò che è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per annientare le cose che sono» (Cf. 1 Cor 1, 27-28).

Questo modo di essere e di agire di Dio si è realizzato nella persona e nell'opera di Gesù e si prolunga nella storia attraverso i suoi testimoni. La Liturgia odierna ci offre un esempio storico, proponendo la memoria di San Martino de Porres.

2. Memoria liturgica di San Martino de Porres

Faccio riferimento ad essa, perché si tratta di un Santo religioso, fratello converso dell'Ordine domenicano.

La sua vita è segnata dalla condizione di mulatto e figlio illegittimo di una schiava nera e di un nobile spagnolo, che lo impediva di diventare sacerdote: un «afroamericano», un escluso ed emarginato, uno dei tanti poveri e piccoli del suo tempo e del mondo di oggi.

Si consacra tuttavia alla vita religiosa e diventa portiere del convento, prestando i servizi di barbiere e di infermiere, mestieri che - per le sue doti naturali - già esercitava quando era nel mondo.

Il suo costante riferimento a Dio, a cui riconosce il primato su tutto il suo essere; la sua intensa vita eucaristica; la sua carità sollecita verso gli ultimi come lui; il suo amore e rispetto per la natura... fanno di lui la persona più ricercata nella città. La sua cella diventa un punto di incontro, un posto di accoglienza e di riferimento per molta gente.

Nel suo cammino di santità, Martino non si trova solo. In quel momento della Storia sorge a Lima un grappolo di Santi, dalle più svariate vocazioni: un vescovo (San Toribo de Mogrovejo), una laica consacrata (Santa Rosa di Lima), un missionario francescano (San Francesco Solano) e un religioso dello stesso convento, fratello pure lui (San Giovanni Macías), ed altri servi di Dio...

Questo stesso periodo coincide con un tempo d'oro della Chiesa che è in Lima per il suo slancio apostolico, l'organizzazione pastorale, sforzo di "inculturazione" e rinnovamento interno. A ciò hanno aiutato molto i famosi Sinodi di Lima. Tutto ci sta a dire che "santità di vita" e una "certa organizzazione", non sono contrapposti, anzi si aiutano a vicenda.

Martino de Porres è uno dei più piccoli a cui il Signore si è rivelato in pieno e che ha saputo risponderGli con un amore incondizionato, vivendo in modo eroico la sua vita teologale nella quotidianità di religioso fratello. I capisaldi della sua vita spirituale sono: l'Eucaristia, il servizio ai confratelli e ai più piccoli e poveri, la gioia, l'umiltà, la mortificazione. Un'immagine che, nelle nostre comunità, spesso abbiamo visto realizzata anche in tanti confratelli della nostra Congregazione, soprattutto nei "Religiosi Fratelli".

3. L'evento congregazionale dell'Incontro di Superiori

La parola proclamata e la memoria liturgica vengono ad illuminare il nostro Incontro, aprendoci delle prospettive interessanti. Da parte mia, oso trarre alcune conclusioni e applicazioni che aiutano ad impostare teologicamente questi giorni. Condivido dunque con voi alcuni spunti, senza pretendere esaurire l'immenso tesoro che l'odierna Liturgia offre.

a) Il nostro Incontro deve essere un servizio di governo e di profezia

Fondamentalmente, ci siamo radunati per approfondire e dare concretezza al programma di questo sessennio: un programma delineato dal Capitolo Generale e che ci coinvolge tutti nella corresponsabilità della Congregazione, intesa come un corpo, come la famiglia di tutti.

È importante passare dai principi all'azione, facendoli diventare operativi. Si tratta di concretizzare, con intese e scelte adeguate, il nostro Sint unum; la nostra comunione; la nostra fraternità congregazionale; la nostra unità nella ricchezza delle diversità; la nostra collaborazione internazionale; la nostra condivisione di progetti, persone e mezzi; la dimensione universale del carisma dehoniano.

Ciò suppone realismo, capacità di discernimento dei segni dei tempi e saggezza, perché le modalità della nostra missione possono diversificarsi secondo i tempi e i luoghi.

Per raggiungere un tale obiettivo ci vuole un certo profetismo che ci renda creativi e capaci di accogliere le novità e le provocazioni di Dio, non solo a livello individuale, ma a livello dell'organismo congregazionale, che siamo chiamati a governare. Cioè, quel profetismo necessario ad animare e condurre (= governare) la Provincia, la Regione o la comunità, di cui siamo Superiori, perché risponda all'«oggi di Dio» (Cf. Cst. 144).

Con tutta la nostra buona volontà, possiamo come Superiori perdere l'occasione della «gioia del banchetto», se rimaniamo arroccati nei propri diritti o sicuri nei propri beni o intrappolati nei propri affari e problemi:

  • quei diritti che ci impediscono di assumere la condizione del «servo» fino alle conseguenze di condividere la situazione degli altri e di diventare perfino solidali nel loro destino;
  • quei beni che ci rendono autosufficienti e quindi portati a risolvere tutto da soli, senza l'aiuto di nessuno, perché non si avrebbe ancora bisogno degli altri;
  • quei problemi che limitano i nostri orizzonti, togliendoci la visione dell'insieme, del tutto, della realtà della Congregazione come corpo.

La rivendicazione esagerata dei propri diritti, l'autosufficienza e la limitazione degli orizzonti sono tentazioni possibili anche nella Congregazione, in un certo senso, per tutte le Province, Regioni e comunità internazionali.

Sta a noi, Superiori, essere i primi ad esperimentare e a suscitare l'impegno di un'impostazione diversa. A questo punto, è importante capire che il nostro compito non è solo quello di gestire una realtà, ma anche quello di condurre una parte della Congregazione in fedeltà al carisma ricevuto, in una fedeltà creativa che a volte è scomoda.

Il presente Incontro costituisce un tempo privilegiato e un'occasione unica per crescere nel compito affidatoci.

b) Non perdere mai di vista il traguardo finale: la missione della Congregazione

La Congregazione, come peraltro tutta la Chiesa, è in funzione dell'annuncio del Vangelo. Come il servo del testo proclamato, essa è inviata ad invitare tutti al banchetto del Regno. È la sua missione, la sua ragion d'essere, che si realizza secondo le modalità del nostro carisma.

Dobbiamo quindi sentirci spinti ad andare sulle strade del mondo, inviati a tutti; sentirci inviati a più riprese, toccati sempre di più dalle nuove sfide che si pongono alla Chiesa; aperti soprattutto ai malandati della terra, a coloro che soffrono e sono maggiormente vittime delle miserie umane; sentirci inviati finché la «casa si riempia».

Ci saranno quindi sempre nuovi motivi d'impegno missionario. Si deve solo ascoltare la voce del Padre e fare nostri i suoi sentimenti e la sua volontà di salvezza. Si tratta di provare in noi la sete di Cristo (Cf. Gv 19, 28) e il suo tormento interiore perché divampi il fuoco che Egli venne a portare sulla terra (Cf. Lc 12, 49-50).

Chiamare tutti al banchetto del Padre, alla sua festa, suppone essere convinti del destino universale del Vangelo, che siamo inviati ad annunciare in parole ed opere, in forma opportuna e inopportuna (cf. 2 Tm 4,2). Significa anche riaffermare la nostra missione di essere «profeti dell'amore e servitori della riconciliazione in Cristo» (Cst 7), come con insistenza ce l'ha chiesto l'ultimo Capitolo Generale.

c) Mantenerci nella prospettiva spirituale del nostro Fondatore

Il centro e il modello assoluto della nostra vita è il Cuore di Gesù. Siamo quindi invitati a raffigurarci a Lui, ad identificarci con Lui, ad avere i suoi sentimenti, a percorrere il suo cammino di obbedienza al Padre e a condividere il suo destino di croce e risurrezione.

Questa è stata la prospettiva spirituale del Padre Fondatore e la sua esperienza fondamentale, tanto da costituire come programma e sintesi della sua vita, le parole di Paolo: «... crocifisso con Cristo... non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me... vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e dato se stesso per me» (Gal 2, 20).

Padre Dehon rimane per noi il modello storico di come si percepisce e si vive da religiosi SCJ. Egli ci spinge a credere nella «bellezza della nostra vocazione» e nella certezza che la «Congregazione è opera di Dio»; ci ricorda che «la vocazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore è inconcepibile senza la vita interiore» (Dir.Sp. VI, 21), che è precisamente unione al Cuore di Cristo e alla sua oblazione, fondamento di tutti gli altri impegni.

Anche a partire dalla Liturgia odierna, sono pienamente convinto dell'importanza che questa prospettiva ha per noi e che dovrebbe essere rafforzata in tutta la Congregazione.

d) Nella condizione di poveri

Oltre al servizio ministeriale di andare per le strade del mondo a chiamare i poveri al Vangelo, è importante assumere la condizione di poveri per capire, cioè vivere, e annunciare il mistero di Cristo «oggi».

In un mondo secolarizzato, mondializzato ed impoverito, con tante luci ed ombre contrastanti, la novità del Vangelo e il fulcro di rinnovamento della vita religiosa passano per la nostra scelta concreta dei poveri e della povertà evangelica. Cioè, l'essere piccoli, lo scomparire, il credere alla forza dell'amore e alla gratuità del dono di Dio... ci permetteranno di pensare e di programmare con realismo, saggezza e profezia.

La forza di questa Eucaristia e la preghiera intensa degli uni per gli altri, ci ottengano un Incontro che corrisponda pienamente a quanto il Signore attende dalla nostra Congregazione.

Ci assistano Maria e Padre Dehon, e oggi anche S. Martino de Porres, la cui intercessione invochiamo con tutto il cuore.

P. Virginio D. Bressanelli, scj
Superiore Generale

Rencontre du Conseil Général avec les Supérieurs Provinciaux, Régionaux et des Communautés de MAD, PHI e IND

 

 


Homélie du Supérieur Général à la Messe d'ouverture (3 novembre 1998)

Phil 2, 5-11; Ps 21 (22), 26-32; Lc 14, 15-24

Mémoire de S. Martin de Porres, religieux

Comme d'habitude, nous commençons notre "Rencontre de Supérieurs" par la Célébration Eucharistique. Il ne peut en être autrement, parce qu'elle constitue le moment culminant de vie du Christ et de l'Eglise. Elle l'est de manière déterminante également pour nous, Prêtres du Sacré-Coeur, étant donné la spécificité de l'Eucharistie dans notre spiritualité de fils du Père Dehon.

La Parole qui vient d'être proclamée, s'entrecroisant avec la mémoire liturgique de Saint Martin de Porres, vient éclairer l'événement de la Rencontre, nous offrant des indications, des critères et des orientations qui peuvent situer notre Rencontre dans ses justes dimension et finalité.

Il est vrai que cette Rencontre ne doit pas être considérée comme une retraite spirituelle: tout autre est sa nature et sa fin; il s'agit d'un instrument de consultation et de gouvernement, destiné à repérer et à fixer des stratégies pour gérer, d'une manière adéquate, les réalités de notre Institut. On ne doit cependant pas perdre de vue son but ultime: renforcer la vie de la Congrégation et faire fructifier son charisme.

Dans ce sens, la Rencontre nous fait tous entrer dans un ample effort de communion entre nous et d'engagement théologal dans notre réalité personnelle la plus intime.

Pour cette raison, le lien entre mémoire liturgique, parole proclamée et événement de congrégation trace un itinéraire spirituel que je voudrais vous proposer en toute simplicité. De fait, aucune action de gouvernement n'est une fin en elle-même, et elle n'est efficace qu'avec la grâce de Dieu. En outre, chaque action de gouvernement doit toujours être subordonnée et orientée à une recherche de cohérence et de fidélité de vie des SCJ comme personnes et comme communautés, tant pour leur mission, que pour leur consécration et leur vocation spécifique.

Je voudrais donc souligner le message qui, selon moi, nous parvient "aujourd'hui" à travers les trois éléments signalés.

1. La parole proclamée

Dans le texte aux Philippiens, Paul recourt à une hymne christologique qui présente les diverses étapes du Mystère du Christ: sa préexistence divine, l'anéantissement de l'incarnation et de la mort sur la croix, la glorification reçue du Père et l'adoration qui Lui est rendue par tout le créé.

Ce mystère devient aussi la vie spirituelle du croyant, de l'homme qui suit le Christ. C'est celle-là la manière de vivre la vie chrétienne dans la communauté de l'Eglise, revêtant les sentiments du Christ et renonçant à des considérations et prérogatives qui, même si on y a droit, peuvent éloigner d'un rapport plus fraternel, d'humilité, de solidarité et de charité.

L'anéantissement du Christ L'a conduit à se faire "serviteur-esclave", "semblable aux hommes", "s'humiliant lui-même", "se faisant obéissant jusqu'à la mort de la croix". C'est le parcours d'un service rendu de manière inconditionnelle, soumis à la volonté des autres, jusqu'à l'extrême conséquence de consommer ainsi sa propre vie dans une condition considérée ignominieuse. Mais c'est justement à ce moment-là que le Christ reçoit sa plus grande exaltation et est proclamé et reconnu "Seigneur" de l'Histoire et de l'univers, à la gloire de Dieu le Père.

L'Apôtre nous invite à ressembler à Jésus, à nous identifier à Lui, justement dans ce chemin d'anéantissement et d'amour, de mort et de vie. Même s'il nous apparaît incompréhensible nous pouvons, avec la grâce de Dieu, vivre ce mystère. Une grâce que Dieu offre à tous, mais qui est accueillie seulement par les petits, les humbles: les pauvres en esprit.

L'Evangile d'aujourd'hui nous vient en aide. Dans son amour le Père appelle tous les hommes au Royaume messianique, représenté par l'image d'un banquet de fête. C'est un dessein d'amour que Dieu poursuit à travers ses serviteurs fidèles, envoyés à plusieurs reprises; mais c'est aussi un dessein que tous ne comprennent pas et qui court donc le risque d'être refusé, subordonné à des affaires retenues comme plus importantes.

L'histoire du salut présente justement le paradoxe que les premiers invités, supposant qu'ils sont en condition de mieux comprendre les choses, refusent. Entre eux et la proposition divine s'interposent d'autres valeurs, d'autres préoccupations, d'autres urgences et priorités: mon champ, mes bœufs, ma femme.

Par contre, les pauvres, les estropiés, les aveugles et les boiteux, ceux qui sont au bord du chemin, c'est-à-dire ceux qui ne peuvent pas dite "cela est à moi", ceux qui humainement sont incapables, les exclus, les derniers… ceux-là viennent remplir la maison de la fête, ils entrent et s'assoient pour manger le pain du Règne de Dieu. "Dieu a choisi ce qui est folie aux yeux du monde pour confondre les sages, ce qui est faiblesse pour confondre les forts, ce qui est vil et méprisé, ce qui n'est pas, pour réduire à rien ce qui est" (Cf. 1 Cor 1, 27-28).

Cette manière d'être et d'agir de Dieu a trouvé sa réalisation dans la personne et l'œuvre de Jésus et se prolonge dans l'histoire à travers ses témoins. La liturgie d'aujourd'hui nous en offre un exemple historique en nous proposant la mémoire de Saint Martin de Porres.

2. Mémoire liturgique de Saint Martin de Porres

Je fais référence à cette mémoire parce qu'il s'agit d'un Saint religieux, frère convers de l'Ordre dominicain.

Sa vie est marquée par sa condition de mulâtre et de fils illégitime d'une esclave noire et d'un noble espagnol, ce qui l'empêchait de devenir prêtre: un "afro-américain", un exclu et un marginal, un de ces nombreux pauvres et petits de son temps, et de notre monde aujourd'hui.

Il se consacre cependant dans la vie religieuse et devient portier du couvent, rendant les services de coiffeur et d'infirmier, métiers que &endash; par ses dons naturels &endash; il exerçait déjà quand il était encore dans le monde.

Sa constante référence à Dieu, dont il reconnaît la primauté sur tout son être, son intense vie eucharistique, sa charité empressée envers les petits comme lui, son amour et son respect pour la nature… font de lui la personne la plus recherchée dans la ville. Sa cellule devient un point de rencontre, un lieu d'accueil et de référence pour bien des gens.

Dans son chemin de sainteté Martin ne se trouvait pas seul. A cette même époque surgit, à Lima, un grappe de Saints aux vocations les plus diverses: un évêque (Saint Turibio de Mogrovejo), une laïque consacrée (Sainte Rose de Lima), un missionnaire franciscain (Saint Francisco Solano) et un religieux du même couvent, frère lui aussi (Saint Giovanni Macías), et d'autres serviteurs de Dieu...

Cette même période correspond avec un temps en or pour l'Eglise de Lima, son élan apostolique, son organisation pastorale, son effort "d'inculturation" et son renouveau interne. Les fameux Synodes de Lima ont beaucoup contribué à tout cela, ce qui revient à dire que "sainteté de vie" et une "certaine organisation" ne s'opposent pas, mais bien plutôt sont une aide l'une pour l'autre.

Martin de Porres est un des plus petits à qui le Seigneur s'est pleinement révélé et qui a su Lui répondre par un amour sans condition, vivant de manière héroïque sa vie théologale dans la quotidienneté du religieux frère. Les jalons de sa vie spirituelle sont: l'Eucharistie, le service de ses frères et des plus petits et plus pauvres, la joie, l'humilité, la mortification. Une image que, dans nos communautés, nous avons souvent vu également se concrétiser chez un grand nombre de nos confrères dans notre Congrégation, surtout parmi les "Religieux Frères".

3. L'événement de congrégation de la Rencontre des Supérieurs

La parole proclamée et la mémoire liturgique viennent éclairer notre Rencontre, et nous ouvrent des prospectives intéressantes. Pour ma part, j'ose en extraire quelques conclusions et applications qui aident à situer théologiquement ces journées. Je partage, à votre intention, quelques-uns de ces points, sans prétendre épuiser l'immense trésor que nous offre la Liturgie de ce jour.

a) Notre Rencontre doit être un service de gouvernement et de prophétie

Fondamentalement, nous nous sommes réunis pour approfondir et concrétiser le programme de ce sexennat: un programme tracé par le Chapitre Général et qui nous regarde tous dans la coresponsabilité de la Congrégation entendue comme un corps, comme famille de tous.

Il est important de passer des principes à l'action, les faisant devenir opérants. Il s'agit de concrétiser, par des choix et des accords appropriés, notre Sint unum; notre communion; notre fraternité comme Congrégation; notre unité dans la richesse de la diversité; notre collaboration internationale; notre partage des projets, des personnes et des moyens, la dimension universelle du charisme déhonien.

Cela suppose réalisme, capacité de discernement des signes des temps et sagesse, parce que les modalités de notre mission peuvent se diversifier selon les temps et les lieux.

Pour atteindre un tel objectif, il faut un certain prophétisme qui nous rende créatifs et capables d'accueillir les nouveautés et les provocations de Dieu, non seulement à titre individuel, mais aussi en ce qui concerne l'organisme congrégationnel que nous sommes appelés à gouverner. Je veux dire ce prophétisme nécessaire pour animer et conduire (= gouverner) la Province, la Région ou la communauté, de laquelle nous sommes supérieurs, afin qu'elle réponde à "l'aujourd'hui de Dieu" (Cf. Cst. 144).

Avec toute notre bonne volonté, nous pouvons, comme Supérieurs, perdre l'occasion de la "joie du banquet", si nous restons accrochés à nos propres droits ou sûrs de nos biens propres ou enchevêtrés dans nos propres affaires et problèmes:

  • ces droits qui nous empêchent d'assumer la condition du "serviteur" au point de partager la situation des autres et de devenir solidaires de leur destin;
  • ces biens qui nous rendent autosuffisants et donc portés à tout résoudre par nous-mêmes, sans l'aide de personne, parce que, une fois de plus on n'aura pas besoin des autres;
  • ces problèmes qui limitent nos horizons, nous enlevant la vision de l'ensemble, du tout, de la réalité de la Congrégation comme corps.

La revendication exagérée de nos propres droits, l'autosuffisance et la limitation des horizons sont des tentations possibles même dans la Congrégation et, dans un certain sens, dans toutes les Provinces, Régions et communautés internationales.

C'est à nous les premiers, Supérieurs, à faire l'expérience d'une attitude différente et à en promouvoir la nécessité. A ce point il est important de comprendre que notre devoir n'est pas seulement de gérer une réalité, mais aussi celui de conduire une partie de la Congrégation dans la fidélité au Charisme reçu, fidélité créative, parfois incommode.

La Rencontre actuelle constitue un temps privilégié et une occasion unique pour grandir dans la mission qui nous a été confiée.

b) Ne jamais perdre de vue le but final: la mission de la Congrégation

La Congrégation, comme d'ailleurs toute l'Eglise, existe en fonction de l'annonce de l'Evangile. Comme le serviteur du texte proclamé, elle est envoyée pour inviter tous les hommes au banquet du Royaume. C'est sa mission, sa raison d'être, qui se réalise selon les modalités de notre charisme.

Nous devons donc nous sentir poussés à aller sur les routes du monde, envoyés à tous; nous sentir envoyés, et à plusieurs reprises, toujours plus atteints par les nouveaux défis qui se présentent pour l'Eglise; ouverts surtout aux mal portants de la terre, à ceux qui souffrent et sont le plus les victimes des misères humaines; nous sentir envoyés afin que la "maison se remplisse".

Il y aura donc toujours de nouveaux motifs d'engagement missionnaire. On doit seulement écouter la voix du Père et faire nôtre ses sentiments et sa volonté de salut. Il s'agit d'éprouver en nous la soif du Christ (Cf. Gv 19, 28) et son tourment intérieur afin que s'embrase le feu qu'Il est venu apporter sur la terre (Cf. Lc 12, 49-50).

Appeler tous les hommes au banquet du Père, à sa fête, cela suppose que nous soyons nous-mêmes convaincus du destin universel de l'Evangile que nous sommes envoyés à annoncer par nos paroles et nos actes, de manière opportune et inopportune (cf. 2 Tm 4,2). Cela signifie aussi réaffirmer notre mission d'être "prophète de l'amour et serviteurs de la réconciliation dans le Christ " (Cst 7), comme nous l'a demandé, avec insistance, le dernier Chapitre Général.

c) Nous maintenir dans la prospective spirituelle de notre Fondateur

Le centre et le modèle absolu de notre vie est le Cœur de Jésus. Nous sommes donc invités à Lui ressembler, à nous identifier à Lui, à avoir ses sentiments, à parcourir son chemin d'obéissance au Père et à partager son destin de croix et de résurrection.

Telle a été la perspective spirituelle du Père Fondateur et son expérience fondamentale, au point de constituer comme programme et synthèse de sa vie, les paroles de Paul: "... crucifié avec le Christ... ce n'est plus moi qui vis, mais c'est le Christ qui vit en moi... je vis dans la foi au Fils de Dieu qui m'a aimé et s'est livré Lui-même pour moi " (Gal 2, 20).

Le père Dehon reste pour nous le modèle historique du comment on comprend et on vit comme religieux SCJ. Il nous encourage à croire en la "beauté de notre vocation" et dans la certitude que la "Congrégation est l'œuvre de Dieu"; il nous rappelle que "la vocation des Prêtres du Sacré-Coeur est inconcevable sans vie intérieure" (Dir.Sp. VI, 21) qui est, précisément, union au Cœur du Christ et à son oblation, fondement de tous les engagements.

La Liturgie d'aujourd'hui me convainc pleinement, elle aussi, de l'importance que cette prospective a pour nous et qui devrait être renforcée dans toute la Congrégation.

d) Dans la condition des pauvres

Outre le service ministériel d'aller sur les routes du monde pour appeler les pauvres à l'Evangile, il est important d'assumer la condition des pauvres pour comprendre, c'est-à-dire pour vivre et annoncer le mystère du Christ "aujourd'hui".

Dans un monde sécularisé, mondialisé et appauvri, présentant en contraste tant de clartés et d'ombres, la nouveauté de l'Evangile et le point d'appui de renouvellement de la vie religieuse passent par notre choix concret des pauvres et de la pauvreté évangélique. Etre petits, disparaître, croire à la force de l'amour et à la gratuité du don de Dieu… nous permettra de penser et de programmer avec réalisme, sagesse et prophétie.

Que la force de cette Eucharistie et la prière intense des uns pour les autres, nous obtiennent une Rencontre qui corresponde pleinement à ce que le Seigneur attend de notre Congrégation.

Que Marie, le Père Dehon, et aujourd'hui aussi Saint Martin de Porres, nous assistent, eux desquels nous invoquons l'intercession de tout cœur.

 

P. Virginio D. Bressanelli, scj
Supérieur Général


Homily of the Superior General During the Opening Mass (3 November 1998)

Phil 2: 5-11; Ps 21 (22): 26-32; Lk 14: 15-24

Memorial of St. Martin de Porres, religious

As is our custom, we are beginning our "Superiors' Meeting" with the Eucharistic Celebration. It should not be otherwise, because the Eucharist is the culminating point of the life of Christ and of the Church. It is so in an even more so for us, Priests of the Sacred Heart, given the special importance the Eucharist has in our spirituality as sons of Father Dehon.

The Word that has just been proclaimed, interwoven with the liturgical memorial of St. Martin de Porres, sheds light on the event of our meeting, offering us ideas, criteria and guidelines that can situate our meeting in its proper dimension and scope.

It is true that we cannot change this meeting into some kind of spiritual retreat: it has a different purpose and goal; it is meant to be a means of consultation and government, whose purpose is to identify and set strategies for directing our institute properly; nor can we lose sight of the fact that its final purpose is to strengthen the life of the congregation and help to make its charism bear fruit.

In this sense this meeting involves all of us in a rather broad effort of communion with one another and of theological commitment in our most intimate personal reality.

Therefore, this interweaving of the liturgical memorial, the word that is proclaimed and the congregational event maps out for us a spiritual journey that I would like to explain to you in all simplicity. Indeed, no action taken by the government is an end in itself, and without God's grace it is not effective. Furthermore, every action of government should always be subordinated to and oriented towards seeking consistency and fidelity of the SCJ as individuals and as a community as regards their mission, consecration and specific vocation.

Therefore, I will just point out the message which, in my opinion, comes to us "today" from the three elements I have mentioned.

1. The word that is proclaimed

In the text from Philippians, Paul has recourse to a Christological hymn that presents the various stages of the Mystery of Christ: his divine preexistence, his self-emptying in the incarnation and death on the cross, the glorification that is given to Him by the Father and the adoration that is attributed to Him by all of creation.

This mystery also becomes the spiritual road of the believer, of the person who follows Christ. It is the way of living the Christian life in the community of the Church, putting on the sentiments of Christ and renouncing privileges and prerogatives which, although they are rightfully ours, can lead people away from a relationship of fraternity, humility, solidarity and charity.

Christ's self-emptying led Him to become a "servant-slave" "coming in human likeness", Rather, "he humbled himself", "becoming obedient to death, even death on a cross.". It is the path of service performed in an unconditional manner, submitting to the will of another, to the extreme consequences of consuming one's own life in a condition that can be considered ignominious. However, it is precisely at this point that Christ receives his greatest exaltation and is proclaimed and acknowledged as "Lord" of History and of the Universe, to the glory of the Father.

The Apostle invites us to resemble Jesus, to identify with Him, precisely in this path of self-emptying and love, of death and life. Although this mystery may be incomprehensible, it is possible to live it, with the grace of God. This grace God offers to all, but it is accepted only by the little ones, by the lowly, by the poor in spirit.

Today's Gospel comes to our aid. In his love, the Father calls everyone to the messianic Kingdom, represented by the image of a sumptuous banquet. It is a loving plan which God brings about through his faithful servants, whom he sends out repeatedly; yet it is also a plan that not everyone understands, and there is the risk that it will be rejected, made subordinate to other things that are thought to be more important.

Salvation history affords the paradox that the first ones invited, those who supposedly were in a position to understand things better, are the ones who refuse. Other things come between them and the divine offer: other values, other concerns, other needs and priorities: my field, my oxen, my wife.

On the other hand the poor, the crippled, the blind and the lame, those who are found by the wayside, that is those who cannot say "this is mine", those who are humanly incapable, the marginalized, the least of all… it is they who come to fill the house, who enter and are seated and break bread in the Kingdom of God. "God has chosen what the world considers foolish in order to confound the wise, what the world considers weakness, in order to confound the strong, what the world considers nothing and of little value, in order to reduce to nothing those that are something" (Cf. 1 Cor 1: 27-28).

God's way of being and acting is fulfilled in the person and work of Jesus, and is extended in history through his witnesses. Today's liturgy offers us a historic example, proposing to us the memorial of St. Martin de Porres.

2. The liturgical memorial of St. Martin de Porres

I would like to refer to this memorial, because he is a religious, an oblate brother of the Dominican order.

His life is marked by the fact that he is a mulatto, the illegitimate child of a black slave and a Spanish nobleman; this prevented him from becoming a priest: He is an Afro-American, one who is excluded, marginalized, one of the poor and lowly of his day and our world as well.

However, he consecrated himself in the religious life and became the porter of the convent, offering his services as barber and nurse &endash; professions which, because of his natural talent, he had already exercised when he was "in the world".

His constant reference to God, whose primacy he acknowledged over all his being, his intense Eucharistic life, his charitable concern for those who, like him, were considered the lowliest of all, his love and respect for nature… made him the most sought-after person in all the city. His cell became a meeting place, a place of welcome and a reference point for many people.

In his path of holiness, Martin was not alone. At that time in history we find a whole cluster of saints in Lima, from a wide range of vocations: a bishop (St Turibius of Mongrovejo), a consecrated lay woman (St. Rose of Lima, a Franciscan missionary (St. Francis Solanus) and a religious from the same convent, a lay brother like Martin (St. John Macías), and other Servants of God...

This same period of time is considered a Golden Age of the Church in Lima because of its apostolic outreach, its pastoral organization, and its efforts at "inculturation" and internal renewal. The famous Synods of Lima helped greatly in this regard. All this tells us that "holiness of life" and a "certain degree of organization" are not opposed to one another; rather, they help and support one another.

Martin de Porres is one of those little ones to whom the Lord revealed himself fully, and who was able to respond with an unconditional love, living his theological life to a heroic degree in the everyday living of a religious brother. The capstones of his spiritual life are the Eucharistic, service of his confreres and the poor and lowly, joy, humility, mortification. This is an image which, in our own community, we have so often seen fulfilled in many of the confreres of our Congregation, especially in our religious brothers.

3. The congregational event of the Superiors' Meeting

The word that has been proclaimed and the liturgical memorial shed light on our meeting, opening up interesting perspectives for us. I, for my part, would like to dare to draw some conclusions and applications that help us to give a theological stamp to these days. I will therefore share some ideas with you, with no pretense of having exhausted the immense wealth offered to us in today's liturgy.

a) Our meeting must be a service of government and prophecy

Basically, we are gathered here to delve deeper into and give a concrete expression to the programme for this six years: a programme delineated by the General Chapter and which involves all of us in the shared responsibility for the congregation, which should be understood as a body, as the family of all.

It is important to proceed from principles to action, putting them into operation. It is a question of concretizing, through appropriate choices and agreements, our own Sint Unum; our communion; our congregational fraternity; our unity in the richness of diversity; our international collaboration; our sharing of projects, persons and resources; the universal dimension of the Dehonian charism.

All this requires realism, a capacity for discerning the signs of the times and wisdom, because the way in which we conduct our mission can be different, depending on the time and place.

In order to achieve such an objective, we need to have a certain degree of prophecy that makes us creative and capable of accepting the newness and suggestions of God, not only at the level of the individual, but also as the congregational entity that we are called to govern. That means the prophecy that is needed for leading and inspiring (i.e., governing) the province, region or community of which we are the superiors, so that they may respond to "God's today" (cf. Const. 144).

Despite all our good will, as Superiors we can lose the opportunity for the "joy of the banquet" if we remain attached to our own rights or sure of our own goods or caught up in our own business and problems:

  • Those rights that prevent us from taking on the condition of a "slave" to the point of its final outcome of sharing the condition of others and sharing their fate with them in solidarity;
  • those goods that make us self-sufficient and therefore ready to resolve all problems by ourselves, with no one's help, because then we do not need others;
  • those problems that limit our horizons, that deprive us of the vision of the whole, of the complex reality of the Congregation as a single entity.

The exaggerated claim of one's own rights, self-sufficiency and limited horizons are temptations that can be found in our Congregation, in a certain sense, in all the provinces, regions and international communities.

It is up to us, the Superiors, to be the first to experience and commit ourselves to something different. At this point it is important to understand that our task is not simply that of managing some situation, but also of leading a part of the Congregation in fidelity to the charism that has been received, in a creative fidelity that is sometimes uncomfortable.

This Meeting is a "privileged time" and a unique opportunity for growing in the task that has been entrusted to us.

b) Never lose sight of the final goal: the mission of the Congregation

The Congregation, like the whole Church, has the task of proclaiming the Gospel. Like the servant in the Gospel text that we proclaimed, it is sent to invite everyone to the banquet of the Kingdom. It is its mission, it's raison d'etre, which is accomplishing according to the modality of our charism.

We must therefore feel impelled to go forth along the pathways of the world, sent to everyone; feel sent over and over again, ever touched by the new challenges offered to the Church; open most of all to the suffering people of the earth, to those who suffer and are the worst affected by human misery; feel sent so that "the house may be filled".

There will therefore always be new reasons for missionary commitment. All that is necessary is to listen to the voice of the Father and make his sentiments our own, along with his desire for salvation. It is a question of experiencing in ourselves Christ's thirst (Cf. Jn 19: 28) and his inner torment so that the fire he has come to cast upon the earth may be enkindled (Cf. Lk 12: 49-50).

Calling everyone to the Father's banquet, to his feast, presupposes that we are convinced that the Gospel is destined for all, that we are sent to proclaim in word and deed, in season and out of season (cf. 2 Tm 4:2). It also means reaffirming our mission to be "prophets of love and servants of reconciliation in Christ" (Cst 7), as our most recent General Chapter asked of us with urgency.

c) Remaining in the spiritual perspective of our founder

The center and absolute model of our life is the Heart of Jesus. Thus we are invited to represent him, to identify with him, to have his sentiments, to walk his way of obedience to the Father and share his destiny of the cross and resurrection.

This was the spiritual perspective of our Founder and his basic experience, in such a way that the project and synthesis of his whole life could be found in the words of St. Paul "I have been crucified with Christ; yet I live, no longer I, but Christ lives in me; …I live by faith in the Son of God who has loved me and given himself up for me" (Gal 2: 20)..

Father Dehon is our historical model of how we are to understand ourselves and live as SCJ religious. He impels us to believe "in the beauty of our vocation" and in the certitude that the "Congregation is God's work"; he reminds us that "the vocation of the Priests of the Sacred Heart is inconceivable without the interior life" (Dir.Sp. VI, 21), which is union with the Heart of Christ and his sacrifice, the foundation of all other forms of engagement.

Beginning from today's liturgy, too, we are fully convinced of the importance this perspective has for us and that it should be reinforced throughout the congregation.

d) In the condition of poor people

Besides our ministerial service of going along the pathways of the world to call the poor to the Gospel, it is important to assume the condition of the poor in order to understand, that is to experience, and proclaim the mystery of Christ "today".

In a world that is secularized, globalised and impoverished, with so many areas of dark and light, the newness of the Gospel and the fulcrum of the renewal of religious life can take place only through our concrete choice of the poor and of evangelical poverty. That is, being little ones, decreasing, believing in the power of love and the gratuitousness of God's gift…. will enable us to thank and plan with realism, wisdom and prophecy.

May the power of this Eucharist and our intense prayer for one another obtain that our meeting may fully correspond to what the Lord asks of our Congregation.

Mary and Fr. Dehon are assisting us, and today St. Martin de Porres as well, whose intercession we evoke with all our heart.

 

Fr. Virginio D. Bressanelli, scj
Superior General