Questa pagina per "rendicontare" dell'azione di pace "… anch'io a Kisangani", che vede anche i dehoniani IS tra i promotori e sostenitori.
L'operazione che avrebbe dovuto svolgersi
in Africa nello scorso maggio è stata sospesa e tramandata a causa
dei fatti di sangue occorsi a Kisangani nei giorni che precedevano la partenza
dei 205 italiani.
Questi fatti di cui più sotto viene
riportata una cronaca ed una interpretazione hanno creato un clima di tale
insicurezza da indurre mons. Monsengwo arciv. di Kisangani, attorno al
quale ruotava il SIPA (Simposio Internazionale per la Pace in Africa) e
il resto dell'operazione, ad annullare il tutto.
Possiamo immaginare la grande delusione
dopo mesi di lavoro. I "partenti" hanno comunque deciso di utilizzare quei
giorni dedicati all'Africa in azioni di sensibilizzazione nei confronti
dei politici, dei media e della gente comune a Roma, appunto dal
23 al 26 maggio, ospiti nella chiesa dei congolesi. Sono stati molteplici
i tentativi di contatto con parlamentari e con persone del mondo dell'informazione,
riscontrando per lo più indifferenza: "L'Africa non interessa a
nessuno".
A seguito di questa mobilitazione, consideriamo,
tra gli altri, alcuni risultati significativi:
l'incontro con alcuni parlamentari in
Roma: Nuccio Iovene, Tana de Zulueta, Donato Mosella;
il ricevimento di una delegazione dal
presidente del Senato Casini il 27 maggio;
la conferenza stampa di sabato 15 giugno
di mons. Monsengwo, ricevuto dal presidente della Provincia di Bologna
Vittorio Prodi;
il ricevimento del coordinamento dei promotori
dalla Commissione Diritti Umani del Senato mercoledì 19 giugno:
in commissione i presenti (Toia, Iovene, Martone, Forlani, De Zulueta,
Bonfietti e il presidente Pianetta) si sono assunti l'impegno di interrogare
il governo su quanto fa è può fare per la questione Congo;
su come interessare maggiormente l'ONU; su una possibile missione parlamentare
nella regione dei "Grandi Laghi".
Tutto questo dice che l'operazione "… anch'io a Kisangani" continua anche se sotto altra forma: rimane impellente pensare ed agire per la pace in Africa. Il coinvolgimento che come missionari abbiamo in questo continente ci impegna a cercare assieme alla evangelizzazione e allo sviluppo le strade possibili per il rispetto dei diritti e per una pace per tutti.
Monsenwo propone una diversa data (settembre) per la realizzazione del SIPA, ma il gruppo di coordinamento dei promotori vede con difficoltà la prosecuzione del progetto in questi termini. Probabilmente saranno da cercare altre strade: fare più informazione e più "pressione politica", trovare modalità di vicinanza con la popolazione civile africana per comunicare solidarietà e alimentare la speranza; non esclusa una missione in Africa…
Certamente non ci diamo per vinti e certamente il lavoro da fare rimane enorme. Continuiamo a seminare.
L'esperienza, fallimentare per quel che riguarda la nostra presenza in Africa ha comunque saputo mobilitare risorse umane e motivazionali; la popolazione civile di Kisangani ha certamente messo in moto un processo di analisi della situazione tale da vincere l'acquiescenza che si era nel tempo creata rispetto alla situazione di fatto di occupazione (vedi la testimonianza di p. Giovanni Pross); ha messo nuovamente in luce l'inerzia o l'inefficacia di questa ONU, rimotivando una azione forte in vista di una sua profonda riforma… L'Africa ci è divenuta "più vicina".
A livello economico tutta l'operazione ha avuto dei costi. La quota versata dai partecipanti sarà restituita progressivamente auspicando che contribuiscano comunque a ripianare il passivo che ammonta ad ¤ 92.719,69
Qui sotto la cronaca dei fatti di sangue e le interpretazioni.
Saluti di pace,
p. Renzo Busana
KISANGANI, LA SETTIMANA DI SANGUE: 14-21 MAGGIO
Il contesto
Il RCD/Goma, filorwandese, controlla più
di un terzo della RDCongo, tra cui Kisangani, città di mezzo milione
d’abitanti, capoluogo della Provincia Orientale, terza città del
Paese e importante base per la Monuc La città è stata a tre
riprese, nel 1999-2000, teatro di scontri sanguinosi tra forze ugandesi
e rwandesi, con centinaia di morti. Nella città, secondo il parere
generale, i Rwandesi “rendendosi discreti, circolando in abiti civili e
riunendosi soprattutto di notte, restano i veri padroni della situazione.
Ufficialmente, la loro presenza si spiega con la minaccia dei combattenti
hutu (ma la frontiera è a 800 km! ), ma anche con il fatto che l’ultimo
punto d’acquisto di diamanti autorizzato funziona a beneficio di Kigali”
.
La città, malgrado le numerose
visite internazionali, non ha ricevuto aiuti che le permettano di rimettere
in funzione la centrale idroelettrica e di ricostruire le case. Oltre a
ciò “tutti quelli che l’hanno invasa, i mercenari serbi, i Rwandesi,
gli Ugandesi hanno messo mine e in questa città tagliata dal mondo,
è a rischio della loro vita che le mamme coltivano gli orti che
permettono la sopravvivenza.” Quando i rappresentanti del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU hanno chiesto alla popolazione se era pronta ad accogliere
l’Alleanza per la ripresa del Dialogo Intercongolese” , essa ha protestato
vivamente, perché teme di divenire il centro di un Congo separato.
Già dal 20 aprile, all’indomani
della firma dell’Accordo di Sun City, dei movimenti di truppe erano apparsi
ben evidenti e la popolazione era in una psicosi continua della guerra.
Cronaca di un dramma
14 maggio, ore 4,30
: colpi d’arma da fuoco in città; dopo circa due ore ci si rende
conto dalla radio che è avvenuto un ammutinamento all’interno dell’esercito
del RCD/Goma. Gli insorti invitano i militari rwandesi a lasciare la città
e chiamano la popolazione a munirsi di armi bianche e raggiungere il centro
città per attaccare i “nemici rwandesi”, mentre altri avrebbero
potuto avere fucili e munizioni allo Stato Maggiore dell’esercito per liberare
totalmente la città. Sempre per radio, gli insorti chiedono alla
locale radio cattolica e a quella della MONUC di rilanciare il loro messaggio
a Kinshasa da dove sarebbe venuto un rinforzo. Si dichiarano sostenuti
da Kinshasa e dalla MONUC. I due aeroporti sarebbero chiusi al traffico,
tranne che per gli aerei della MONUC. Nel contempo, i loro capi militari
congolesi viaggiano in città, facendosi applaudire dalla folla che
li considera decisi a sganciarsi dai Rwandesi.
Il discorso di incitamento all’odio trova
qualche eco favorevole alla base. Parte della popolazione, tra cui dei
giovani accorrono con manganelli e armi bianche alla caccia dei Rwandesi
e per accelerare, pensano, la loro liberazione totale. Sono inquadrati
da qualche poliziotto armato ma con scarse munizioni. In questa prima fase
vengono uccise sei persone, di cui tre Rwandesi o ritenuti tali. Ma quanti
fra i manifestanti hanno raggiunto lo Stato Maggiore dell’esercito non
ricevono alcuna arma: vengono anzi pregati di rientrare. Tutti i detenuti
fuggono. Intanto, militari ostili all’ammutinamento tirano su dei civili.
Verso le 9,
le forze lealiste del RCD/Goma, attraverso l’Ispettore della Polizia nazionale
e il comandante della 7a Brigata annunciano alla radio di aver preso il
controllo della situazione, senza aver sparato un colpo, e di aver chiesto
ai rivoltosi di lasciarsi catturare. Pattuglie si sono costituite per arrestare
e reprimere la popolazione che manifestava in strada.
Alle 10, il governatore della Provincia,
Jean-Pierre Bilusa, alla Radio Televisione Congolese attacca con forza
la Società civile della Provincia Orientale come responsabile dei
fatti in connivenza con il Governo di Kinshasa, e decide immediatamente
la cessazione momentanea delle attività della stessa. Chi interverrà
per la liberazione di un arrestato, sarà arrestato a sua volta,
afferma. Annuncia l’arresto dei capi della rivolta. Le altre strutture
del RCD alla radio parlano contro la Chiesa Cattolica e la Società
civile, accusate di occuparsi di politica.
Due ore dopo, tutti i militari e poliziotti
erano stati chiamati per radio a un raduno allo Stato maggiore della 7a
Brigata. Molti di loro saranno brutalmente arrestati.
Nella tarda mattinata, da Goma
arriva a Kisangani lo staff politico-militare del RCD, il quale fa una
lunga riunione all’aeroporto, mentre beve whisky e birra. Durante la giornata,
a più riprese voli provenienti da Goma, portano numerose truppe
in appoggio alla VII Brigata Kisangani.
Il padre gesuita spagnolo Xavier Zabalo,
parroco a Mangobo, mentre accompagnava un ferito grave è bloccato
da militari, che lo conducono all’aeroporto ove è accolto da comandanti
ubriachi. A un certo punto viene dato l’ordine: “Andiamo a Mangobo!”. Il
Padre viene poi condotto al Campo Ketele. Erano circa le 15. Successivamente
il Padre verrà ancora trasferito, fino a subire alle 11 e 30 dell’indomani
l’interrogatorio all’Ufficio dei Servizi Segreti (DSR).
Verso le 15, con delle macchine,
i militari raggiungono il comune di Mangobo, ove si trovano i quartieri
popolari noti per il loro elevato grado di resistenza. Ricevono ordini
per fonia dai loro capi rimasti al centro della città. Parlano nella
lingua rwandese o un uno swahili che non è del luogo. Comincia la
caccia all’uomo in questo comune, la cui popolazione è rintanata
in casa, dopo che il Governatore aveva annunciato la fine dell’insurrezione
e l’aveva invitata a tornare alle sue occupazioni. Civili vengono uccisi
con estrema facilità e senza ragione: uomini, donne, bambini. Inoltre
si segnalano stupri e rapimenti di ragazze, saccheggio di case, compresa
la parrocchia, arresti arbitrari, sparizioni di persone. Il vicario del
p. Zabalo, l’anziano p. Guy, riceve un calcio nelle costole. “I beni così
saccheggiati sono accumulati al quartiere militare del RCD/Goma”, a Simi-Simi.
I responsabili di questi misfatti sono conosciuti: autorità militari
di cui alcune venute da Goma. I giovani del quartiere fuggono.
Nel palazzo del Governatore, il
numero due della Monuc, il generale italiano Martinelli, che si trovava
nella città nei giorni 14-16 maggio, chiede con fermezza al RCD/Goma
la sospensione di ogni rappresaglia. Il generale è irritato anche
per la chiusura al traffico dei due aeroporti. Pattuglie delle forze ONU
sono poi inviate in perlustrazione nel centro città. Ma esse non
hanno potere d’intervento e la popolazione si sente terrorizzata e abbandonata.
Alle 18, due ufficiali militari
visitano le zona del ponte Tshopo, nell’omonimo comune, zona che fin dal
primo pomeriggio i militari avevano rastrellata.
Alle 20, primi andirivieni di camion
tra il Ponte Thsopo e il Campo Kapalata. È la fine per molti poliziotti
e militari arrestati. “Secondo le nostre fonti, diversi veicoli su cui
questi poliziotti hanno preso posto sono stati condotti al Ponte Tshopo
per l’esecuzione. Tra essi, se ne potevano vedere alcuni ammanettati e
altri con le mani libere. Quest’operazione è durata tra le 20 e
30 e le 23 e 40”.
Il 15 mattina: “L’indomani mattina,
- continua la testimonianza - l’accesso al ponte come pure quello alla
rotonda che conduce a questo ponte era scrupolosamente vietato ai passanti.
Verso
le 13 e 30, diversi corpi umani hanno fatto irruzione alla superficie
del fiume Tshopo. Certi con le teste e altri senza testa, né certi
organi. Quasi tutti i corpi erano sventrati. Avvertiti, alcuni osservatori
della Monuc si sono affrettati sul posto, prima della sepoltura da parte
dei volontari della Croce rossa locale. Nello stesso pomeriggio, i militari
si sono recati sul posto e hanno sparato in aria per disperdere la popolazione
che vi si era recata per l’identificazione probabile dei cadaveri. Questo
infame lavoro è opera dei militari la cui maggioranza erano dei
Rwandesi, venuti da Goma il giorno stesso del cosiddetto ammutinamento”.
Si intensifica la requisizione dei veicoli.
Persone vicine al RCD parlano di liste di persone ecclesiastiche e della
società civile, che devono essere arrestate. Molti militari congolesi
fuggono in piroga. Le autorità di Kinshasa accusano l’esercito del
Rwanda, e denunciano la “compiacenza” del Consiglio di sicurezza dell’ONU
nei confronti del Rwanda, in quanto non sono state fatte applicare le Risoluzioni
1304.1399 sulla smilitarizzazione di Kisangani; chiedono un’inchiesta sui
fatti della città. Il RCD/Goma dichiara che i morti sono stati trovati
sul percorso di fuga degl’insorti, che sarebbero stati 150.
Il 16 maggio, il Vice Capo di Stato Maggiore del RCD/Goma annuncia alla radio che punirà severamente gli esponenti della società civile, assimilati ad agitatori, manipolatori degli ammutinati, spie del governo di Kinshasa e agenti delle potenze occidentali. Dei pescatori scoprono dei corpi sull’acqua, all’altezza dell’UNIBRA.
Il 17 maggio, “la calma della mattina
a Kisangani è stata perturbata da colpi d’arma da fuoco risuonati
verso fine mattina nei dintorni del Ponte Tshopo… tirati per disperdere
la folla che contemplava la scena macabra della fluttuazione dei corpi
nei dintorni del Ponte Tshopo. Infatti, dal pomeriggio di martedì
14 maggio il ponte Tshopo era sotto guardia militare. È giovedì
16 maggio alle ore 18 che questa guardia è stata tolta… Certi corpi
sono senza testa, altri sono sventrati, diversi portano tracce di baionette.
Si sono anche scorti dei sacchi gonfi e insanguinati”. I colpi d’arma da
fuoco si sono fatti più intensi verso le ore 13, la Croce Rossa
e la Monuc sono state impedite di avvicinarsi. Verso le 15, un camion a
riportato qualche corpo in direzione dello Stato maggiore. Il ponte resta
sotto alta sorveglianza militare. “Si continua a parlare di una ventina
di ufficiali scomparsi, il 70% dei quali proverrebbe dall’Equatore e quasi
tutti degli ex-FAZ (Forze Armate Zairesi). Sono accusati di connivenza
con J.-P. Bemba.” .
La BBC e RFI diffondono notizie. Alcune
reazioni internazionali si levano. Intanto dalla riunione del 13-18 maggio
a Kigali dei Vescovi della Regione dei Grandi Laghi (ACEAC), esce il 17
maggio un appello a “ricercare quello che contribuisce alla pace”: vi si
denunciano le violazioni dei diritti umani , il traffico d’armi, la mancanza
di uno Stato di diritto, gli interessi stranieri che diventano complicità
con governi e gruppi che mantengono la guerra.
Rientrato da questa Assemblea il 18 maggio, l’arcivescovo della città, Laurent Monsengwo Pasinya, nel suo messaggio di Pentecoste del 19 maggio esprime la sua indignazione per i massacri e afferma: “Mettere in atto delle ostilità a Kisangani, mentre da due mesi la città si appresta a celebrare un simposio della Pace, è con ogni evidenza un rifiuto intenzionale e ostinato di impegnarsi nelle vie della pace”. Dei corpi continuano a riapparire sul fiume.
La Monuc della città in un “Rapporto preliminare sugli avvenimenti di Kisangani”, pubblicato intorno al 23 maggio, denuncia le violazioni dei diritti umani nella città e dichiara di essere più volte intervenuta con appelli alla calma. Afferma che sebbene un ammutinamento sembra davvero essere stato la causa scatenante delle rappresaglie compiute dal RCD, essa ritiene tali ritorsioni ingiustificabili e inaccettabili. E conclude: “Appare senza possibilità di errore che gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale sono state perpetrate dal RCD, autorità amministrativa di fatto a Kisangani”. L’ONU apre un’inchiesta su una cinquantina di poliziotti scomparsi, che avrebbero dovuto seguire un corso di formazione: uccisi o fuggiti? Fonti attendibili parlano di almeno 200 morti, civili e militari.
Il 24 maggio, il Consiglio di
sicurezza dell’ONU condanna “vigorosamente” i massacri avvenuti a Kisangani
e torna a chiedere la smilitarizzazione della città, la completa
riapertura del traffico commerciale sul fiume Congo. Domanda a Kofi Annan
di valutare se serva un temporaneo rafforzamento della presenza della Monuc
nella città.
L’Unione Europea interviene lo
stesso giorno denunciando la recrudescenza della violenza nelle zone occupate
dal RCD/Goma, in particolare a Kisangani.
Da Roma, ove digiunano e manifestano,
i partecipanti all’azione di pace “… anch’io a Kisangani” impossibilitati
a partire, mandano un messaggio di solidarietà all’Arcivescovo e
alla popolazione.
Il 25 maggio, il Rwanda nega ancora una volta la presenza del suo esercito a Kisangani: “Tutti sanno che abbiamo lasciato Kisangani due anni fa”, dice il portavoce dell’esercito rwandese. La Francia però ha dichiarato il giorno prima di disporre di informazioni che ne segnalano la presenza.
Arriva a Kisangani il Presidente del RCD/Goma,
Adolphe Onusumba, che dichiara la disponibilità del RCD a un’inchiesta
internazionale. Restituisce la macchina alla parrocchia di Mangobo e versa
una somma di 500 $ alla diocesi come risarcimento danni.
Il 26 maggio, giunto nella città,
il rappresentante speciale di Kofi Annan, Amos Ngongi, incontra una delegazione
del RCD/Goma che gli esprime sdegno per il rapporto della Monuc sui fatti
di Kisangani e lo dichiara “persona non grata”. “…Una notizia sconvolgente
è circolata nella città: …diverse teste sono riapparse questa
mattina, in stato di decomposizione… Se ne sarebbero riempite due carrette….”
Il presidente del RCD/Goma dichiara il 27 maggio in una conferenza stampa a Kigali: “Noi condanniamo le atrocità e i delitti che vi sono stati commessi, da qualunque parte vengano… Lanciamo un appello alla creazione di una commissione d’inchiesta indipendente e internazionale per fare completa luce su questi fatti… Rimettiamo in causa l’imparzialità e l’indipendenza della Monuc e in particolare del sig. Amos Ngongi”. Nega però che ci siano state esecuzioni sommarie. Gli eventi non impediranno, dice, l’installarsi nella città dell’Alleanza per la salvaguardia del Dialogo intercongolese.
Il 31 maggio, il RCD/Goma chiede
l’espulsione definitiva di Amos Ngongi. Ordine di espulsione entro 48 ore
nei confronti del belga Luc Hattenbreck, responsabile dell’ufficio Diritti
Umani della Monuc nella città.
Il 2 giugno due altri funzionari
della Monuc, il francese Louis Gasparot, capo della sicurezza, e la colombiana
Magda Gonzales, consigliera politica, accusati dal RCD/Goma di collaborazione
con il governo di Kinshasa, vengono espulsi da Goma.
Il 5 giugno, il Consiglio di Sicurezza chiede al Rwanda di fare pressione sul RCD/Goma perché cessi di inquietare i suoi funzionari e condanna “nei termini più energici gli atti d’intimidazione e le dichiarazioni pubbliche prive di fondamento” contro gli osservatori dell’ONU in RDCongo. Chiede anche ai ribelli di ritirare le loro forze armate da Kisangani.
Il 6 giugno, una delegazione della Monuc si reca a Goma per dichiarare che il Segretario generale dell’ONU Kofi Annan ha piena fiducia in Ngongi e per chiedere le ragioni dei provvedimenti contro gli altri tre uomini della Monuc e garanzie di sicurezza per le forze ONU. La sicurezza viene garantita, ma il punto di vista del RCD/Goma sui quattro funzionari ONU resta invariato.
L’8 giugno, la Società Civile
segnala che la calma attualmente osservata a Kisangani è solo apparente:
- il 6 giugno il Comitato di sicurezza
della Provincia ha chiesto a tutte le organizzazione della società
civile di rinnovare il permesso di funzionamento e che prima di tenere
una riunione ne chiedano l’autorizzazione e ne facciano poi resoconto all’autorità;
- la minaccia contro le persone continua;
- Il 29 maggio, il RCD/Goma ha costituito
una commissione incaricata di indagare sui fatti del 14 maggio e arrestare
le persone sospette. È presieduta dall’Assistente al dipartimento
dell’Interno, e il Governatore della Provincia orientale ne è membro
(!!).
Interpretazioni dei fatti
- La prima ipotesi, fatta dalle autorità della città, è che si tratti di uno scontro tra dei militari RCD/Goma, favorevoli all’adesione all’accordo di Sun City, le truppe filo-rwandesi dell’RCD/Goma o quelle rwandesi dell’APR. .
- Il 15 però il Presidente del RCD/Goma parla di coalizione tra governo di Kinshasa e MLC, per riprendere la città di Kisangani. Kinshas,a da parte sua, nega di avermanipolato elementi del RCD: “In realtà, - dice il 27 maggio il Ministro dei diritti umani del governo di Kabila - si è trattato di una rivolta della popolazione. C’è stato un movimento della popolazione più o meno spontaneo, più o meno organizzato. Il RCD ne ha approfittato per lanciare la caccia all’uomo”.
- Ma già il 14 maggio “diversi analisti si orientano verso la tesi di una sceneggiatura interna per indurire il tono, recuperare la situazione, rimilitarizzare la città e forse impedire la tenuta del Simposio internazionale per la pace”.
- Vari gruppi della Società civile già dal 15-16 maggio fanno un’analisi delle ipotesi:
1. Ammutinamento di ufficiali dell’esercito del RCD/Goma favorevoli all’avvicinamento al governo di Kinshasa (tesi del RCD/Goma). Dubbi al riguardo di questa tesi: - testimoni hanno parlato di non più di venti militari che hanno occupato la radio; - gli ammutinati sono rimasti quattro ore alla radio senza alcun intervento dei loro capi, che nel contempo circolavano in città applauditi dalla folla; - certi militari sono stati visti tra gli ammutinati e poi tra quelli che hanno tolto l’occupazione alla radio: il tutto senza colpo ferire; - i militari scesi in strada erano poco armati; - gli aeroporti sono rimasti sempre nelle mani del RCD/Goma; - gli ammutinati non sono stati presentati, né denunciati;
2. Macchinazione del potere in atto per perpetuare la sua presenza militare e politica a Kisangani e instaurarvi un regime d’eccezione (tesi condivisa da gran parte della popolazione). Vengono avanzate diverse ragioni, tra le quali: il disordine a Kisangani, messo sul conto del Governo di Kinshasa, serviva a allontanare la smilitarizzazione della città ripetutamente richiesta dal Consiglio di sicurezza; le mosse ostili contro la Società civile della città, per il sostegno da essa dato all’accordo parziale di Sun City. Con questi eventi, affermano i documenti, si può giungere a restringere il campo d’azione della Società civile, purgare il RCD/Goma dei responsabili considerati poco allineati, supermilitarizzare la città, reprimere la popolazione, che non cessa di chiedere l’adesione all’Accordo di pace.
Reazioni nel Paese
A Kinshasa, centinaia di esponenti
della società civile
manifestano il 23 maggio davanti alla
sede della Monuc, per protestare contro l’immobilismo della comunità
internazionale di fronte ai fatti di Kisangani e più in generale
di fronte al vergognoso sfruttamento di cui è oggetto il paese.
La vice-governatice della Provincia orientale ha detto in lacrime: “Noi
abbiamo dato la nostra fiducia alla Monuc e alle Nazioni Unite per mettere
fine alla guerra, ma a Kisangani si continua a uccidere e a massacrare…
Se voi della Monuc non potete fare altro che essere spettatori impotenti,
tanto vale che ve ne andiate”. Nel memorandum consegnato al portavoce della
missione Onu si chiede, oltre alla smilitarizzazione di Kisangani, che
la Monuc sia trasformata in forza di mantenimento della pace (peacekeeping)
o addirittura di imposizione della pace (peaceforcing), e che una
commissione d’inchiesta sia inviata in Rwanda per indagare sulla sorte
delle persone deportate dopo i recenti fatti di Kisangani. Il 27 maggio
è stata giornata di lutto nella RDCongo per i fatti di Kisangani.
Il 28 maggio, la RDCongo ha deposto
una denuncia davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja (CIJ)
contro il Rwanda per “violazione massiccia” dei diritti umani e aggressione
armata, chidedendo che il Rwanda sia riconosciuto colpevole del “genocidio
di 3,5 milioni di Congolesi”. La RDCongo chiede alla Corte di ordinare
il ritiro “immediato e senza condizioni” di tutte le forze armate rwandesi
dalla RDC”. La CIJ ha deciso di usare la procedura d’urgenza esaminando
in giugno il caso. Già la prima udienza ha avuto luogo.
L’inchiesta
Kinshasa aveva chiesto all’Alto Commissario ONU per i diritti umani Mary Robinson che fosse costituita una commissione internazionale d’inchiesta per far luce sui fatti di Kisangani. Varie voci si sono levate per chiedere un’inchiesta. Così, il 15 giugno giunge a Kinshasa la Relatrice speciale dell’ONU sulle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrarie, Asma Jahangir. Resterà nel Paese fino al 22, recandosi anche a Goma e a Kisangani, per condurre l’inchiesta sui massacri di Kisangani, chiestale da Mary Robinson, in risposta alla dichiarazione del Presidente del Consiglio di sicurezza, in data 24 maggio. Al termine della sua missione, Asma Jahangir presenterà le sue constatazioni a Mary Robinson, che ne informerà il Consiglio di sicurezza.
“…anch’io a Kisangani”: una solidarietà non spenta
Il gruppo di 220 persone in partenza per
Kisangani, per il SIPA2, impedito all’ultimo momento di partire dal fatto
che la società civile locale non aveva ricevuto adeguate garanzie
dalle autorità locali, si è riunito in assemblea il giorno
stesso della partenza. Molti fra di loro hanno deciso di manifestare a
Roma, ospiti della Chiesa dei Congolesi a Piazza di Pasquino, digiunando
durante i giorni che avrebbero dovuto trascorrere a Kisangani, la loro
solidarietà con la popolazione della città e del Congo in
generale. Tra loro anche cittadini congolesi residenti a Roma.