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P. Mario Panciera SCJ

DALLA CROCE ALLA VITA

NATI DALLA CROCE

Commissione Generale pro Beatificazione di p. Dehon

Curia Generale SCJ

Roma - 2004

DALLA CROCE ALLA VITA. NATI DALLA CROCE

Mario Panciera, scj

La vita del beato P. Leone Dehon, dall'inizio alla fine, è segnata dalla croce, ma non è mai stato un dolorista, anzi, all'esterno appariva sempre sereno, quasi imperturbabile, dotato di un fine umorismo. Come „senza spargimento di sangue non esiste perdono” (Eb 9,22), così allo stesso modo non ci può essere neppure generazione di generazione di vita. La croce non è soltanto lo strumento della nostra redenzione, ma è anche il passaggio obbligato per ogni contributo all'edificazione del Regno.

Possiamo, quindi, stabilire la tesi seguente: Se esiste la Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù, se noi Dehoniani esistiamo, lo si deve sicuramente alla volontà di Dio, ma anche alle sofferenze subite e offerte di P. Dehon.

A questa conclusione non si arriva attraverso la lettura diacronica della sua vita, ma attraverso uno sguardo retrospettivo e sincronico che colga il senso di tutta la vita. E' quanto cercheremo di fare nei brevi limiti di un articolo che potrebbe forse invogliare a uno studio più approfondito e puntuale.

Non c'è dubbio che l'emissione del voto di vittima che P. Dehon ha unito alla professione dei voti religiosi il 28 giugno 1878, è il punto discriminante di tutta la sua vita. Di questo parleremo in seguito, ma per il momento ci limitiamo a precisare che esso non rappresenta una cesura rispetto alla sua vita precedente. Le croci, infatti, non sono mancate fin dall'inizio. Ci sembra, anzi, di cogliere una continuità dell'azione divina, una specie di pedagogia divina attraverso la croce.

Benché fosse di statura slanciata, il giovane Leone Dehon non è mai stato un colosso di salute. Il suo carattere intelligente e vivace nascondeva una costituzione fragile, dovuta anche ad alcune malattie o incidenti dell'infanzia. Non ci riferiamo alle solite malattie infantili, ma ai fatti più seri che hanno lasciato un segno nel seguito della sua vita.

Aveva appena quattro anni, quando fu colpito da quella febbre cerebrale maligna che, qualche anno prima, aveva portato alla morte un suo fratellino. Guarì, ma gli rimase una tendenza al mal di capo.

In età scolastica, un brutto incidente rischia di fargli perdere la vita. Ritornando da scuola d'inverno, al buio e tutto incappucciato a causa di una tormenta di neve, va a sbattere contro un cavallo che trainava un carro. Se un suo compagno non lo avesse prontamente tratto in disparte, sarebbe finito sotto le ruote. Il colpo alla testa gli procurò uno stordimento agli orecchi che durò alcuni giorni e gli lasciò una leggera sordità che lo accompagnò per tutta la vita.

Non siamo lontani dal vero se in questi due avvenimenti vediamo uniti insieme croce e benedizione. La stessa cosa possiamo dire di altri due fatti che ci riportano a quel lungo viaggio in Oriente e in Terra Santa (agosto 1864-giugno 1865) che suo padre gli permise nella speranza di distoglierlo dall'idea di farsi sacerdote. Le lunghe camminate e la salita sul Monte Carmelo gli procurarono una dolorosa piaga in un piede. Pregò la Madonna e al mattino seguente la piaga non c'era più. Molto più seria, invece, fu una febbre che lo colse mentre con l'amico Palustre visitava la Troade. Le forze gli vennero meno e fu costretto a mettersi a letto. Il viaggio era in pericolo. Anche questa volta pregò la Madonna e, dopo due giorni, era in grado di riprendere la strada.

Ancora croce e benedizione. Ma questa volta restiamo stupiti e sorge un interrogativo: Dio premiava una fede così ingenua oppure lo stava preparando alle tappe future? Sappiamo, infatti, che quel viaggio ebbe la sua conclusione a Roma dove intraprese la sua preparazione al sacerdozio.

Gli studi progredivano regolarmente, regalando al giovane chierico varie soddisfazioni con i premi che gli venivano assegnati. Ma l'anno 1868 fu un anno terribile per il concentrarsi di impegni che si aggiunsero all'ordinaria fatica degli studi: primo, fu scelto tra i 24 stenografi per il concilio Vaticano primo e, quindi, doveva aggiungere dei corsi di preparazione; secondo, insieme alla gioia di avere a Roma i suoi genitori, vi era l'impegno di stare con loro e accompagnarli nella visita alla città; terzo, si aggiunse la gioia e la tensione per la preparazione all'ordinazione sacerdotale, che, con un indulto papale, poteva essere anticipata proprio in considerazione della presenza dei suoi genitori. Tutto questo, messo insieme, diede fondo alle sue energie e lo portò all'esaurimento. Subito dopo l'ordinazione, i suoi genitori partirono in fretta per preparare la festa della prima Messa, ma lui dovette mettersi a letto, assalito da quella febbre sospetta che resterà come una spia per tutta la sua vita. Anche questa volta intervenne la Provvidenza di Dio. Gli arrivò un pacchetto anonimo, in cui vi era una boccetta di acqua di Lourdes e un cingolo cosiddetto di San Giuseppe. Don Leone bevve l'acqua di Lourdes e guarì in modo quasi subitaneo e fu in grado di prendere il treno per celebrare la prima Messa al suo paese. Il suo stato di salute, tuttavia, non doveva essere molto florido, se durante le sue prime Messe qualcuno ha commentato: „Questo povero prete non dirà molte Messe!”. Ancora una volta, croce e benedizione. Ancora una volta, appare evidente l'intervento della Santa Vergine.

Siamo solo all'inizio della sua missione e già la precarietà della sua salute appare come una sfida al futuro. Ma è proprio alla luce del futuro che possiamo parlare di pedagogia di Dio. Sembra evidente, infatti, che tali eventi, di croce e di benedizione, lo abbiano preparato a sviluppare quelle disposizioni interiori all'accettazione della sofferenza e alla fiducia in Dio, che sono indispensabili a una vittima dell'amore e della riparazione.

Quel povero prete, per il quale non si prevedeva un lungo futuro, di Messe ne celebrerà ancora molte, ma sempre più all'ombra della croce. Dopo una decina d'anni di un vorticoso ministero sacerdotale a San Quintino, sente la chiamata a fondare la Congregazione dei Sacerdoti (inizialmente: Oblati) del Sacro Cuore di Gesù. Il 28 giugno 1878, festa del Sacro Cuore, P. Dehon termina il suo noviziato ed emette i voti religiosi, aggiungendo quello di vittima. Di quel giorno egli scrive: „Mi diedi senza riserve al Sacro Cuore di Gesù, e nel mio pensiero i voti erano già perpetui: la mia emozione fu molto profonda. Sentivo che prendevo la croce sulle spalle, dandomi a nostro Signore come riparatore e come fondatore di un nuovo istituto”.

In queste poche parole vi è la consapevolezza del passo che aveva fatto e anche la chiave di lettura con cui P. Dehon leggerà tutti gli eventi che toccheranno la sua vita. Coloro che lo seguiranno sulla stessa via della riparazione saranno ugualmente consapevoli che quel voto significava mettersi sull'altare insieme a Gesù Cristo, Vittima Divina per l'espiazione dei peccati. Lo esprime in modo evidente quella degna figura di dehoniano che è stato P. Alfonso Rasset: „Credo che, consacrandosi al Sacro Cuore, si ottengano soprattutto splendidi insuccessi, umiliazioni, sconfitte e catastrofi, frammisti a successi incredibili che gettano nello stupore, quando si considera la povertà degli strumenti”.

Non è qui il luogo per entrare nella problematica sul senso specifico del voto di vittima e, in particolare, sulle nozioni di consolazione e riparazione, intorno alle quali si sono sviluppate molte ricerche e discussioni. Noi ci fermiamo alle convinzioni di P. Dehon e come egli lo ha vissuto negli anni che seguirono. Del resto, P. Dehon non era un ingenuo ripetitore delle teorie che circolavano nel suo tempo, ma aveva delle idee ben precise. Quando uno dei suoi Padri (P. Guillaume) scrisse che il nostro Fondatore „più che dei riparatori, aveva inteso raggruppare dei consolatori”, P. Dehon vede subito il pericolo di quietismo e interviene a precisare: „Voi non conoscete ancora nei particolari i nostri inizi. Non ho voluto fare altro che un'Opera di riparatori e di vittime….Ho fatto voto di vittima e nostro Signore l'ha preso sul serio, mandandomi una dopo l'altra le prove più crocifiggenti, alcune delle quali sono menzionate nei miei Ricordi”.

Egli è ben convinto che la spiritualità di vittima non può essere disgiunta dalla croce, tuttavia è ben lontano da quel filone di rigorismo penitenziale sostenuto, ad esempio, da Madre Veronica, fondatrice delle Vittime del Sacro Cuore. A questa linea apparteneva P. Andrea Prévot che aveva fatto parte del gruppetto di sacerdoti che seguivano la sua spiritualità. Ma P. Dehon, pur rispettando la spiritualità di P. Prévot, precisava: „Io preferisco lasciare in mano a nostro Signore il manico della frustra. Insisto meno sulle mortificazioni personali, pur considerandole necessarie, ma raccomando maggiormente l'abbandono paziente alle prove che nostro Signore manderà. Nostro Signore non si crocifisso, ma si è lasciato crocifiggere”.

P. Dehon era, quindi, pienamente cosciente che, con il voto di vittima, abbracciava la croce, ma non poteva immaginare quanto, da quel momento in poi, la croce avrebbe pesato sulle sue spalle. Se noi accenniamo ad alcuni tra i momenti più dolorosi, lo facciamo con timore e tremore, perché siamo consapevoli di accostare il mistero più sacro e inviolabile dell'azione di Dio nel cuore e nella vita di questo suo servo sul quale aveva dei disegni particolari.

Ci possiamo chiedere quali siano state quelle „prove più crocifiggenti” alle quali P. Dehon accenna. In realtà, è stato chiamato a sacrificare tutto e non gli è stato risparmiato nulla: né la consunzione della salute, né la perdita dei beni materiali, né la distruzione delle sue opere, né le calunnie più lesive del suo onore, né perfino la soppressione del suo Istituto e il rifiuto da parte di alcuni suoi figli spirituali.

Dalle sue note personali traspare appena qualcosa, ma molto viene lasciato alla nostra comprensione. Sicuramente ci sono state che hanno richiesto una sottomissione eroica alla croce, ma per noi la cosa più importante è riuscire a cogliere il suo stato d'animo, le virtù che erano in gioco e specialmente la sua piena fedeltà al suo stato di vittima „come riparatore e come fondatore”.

Queste constatazioni generali hanno bisogno di essere convalidate dai fatti che raccoglieremo sotto le voci: sofferenze fisiche, distruzione di molte sue opere, la soppressione temporanea delle sua Congregazione, le sofferenze morali.

Abbiamo già accennato ad alcune sofferenze fisiche che lo hanno accompagnato tutta la vita, ma vi è stato un momento preciso in cui la morte era a un passo, ma fu risparmiato perché vi è stato qualcuno che ha offerto la sua vita al posto suo.

Fin dagli anni giovanili più volte è stato colpito da certe febbri debilitanti dovute a una causa che non si osava pronunciare. In realtà, stava covando la tisi polmonare, una minaccia micidiale che prima o poi sarebbe scoppiata con la sua carica mortale.

Appena insediato come cappellano a San Quintino, fu sommerso in un'attività vorticosa, tanto che non trovava più tempo sufficiente né per la preghiera, né per lo studio, né per il dovuto riposo. Quando, poi, a tutto questo si aggiunsero le preoccupazioni per dare inizio al nuovo istituto, ci fu il tracollo. La tisi esplose con virulenza e incominciarono violenti sbocchi di sangue. La situazione apparve immediatamente molto grave, tanto da ridurlo agli estremi. Ma qui accadde l'imprevedibile. Le suore Ancelle del Sacro Cuore, fondate da Madre Ulrich, vennero a sapere che il loro direttore spirituale e confessore stava molto male, tanto che i medici non gli davano più di tre mesi di vita. Subito si mise in moto una gara di preghiere e di penitenze. In particolare, Sr Maria di Gesù, sorella minore della Madre, giunse fino al punto di offrire la sua vita al posto di quella del Padre. Mise per scritto la sua decisione, chiedendo solo lo spazio di 15 mesi (secondo i 15 misteri del Rosario) per prepararsi alla morte. Quasi subito fu colpita da tisi e, dopo 10 mesi, Dio ritenne che fosse già pronta per il cielo. Il Padre, invece, si riprese e lavorò infaticabile fino a 82 anni, senza mai dimenticare a quale prezzo Dio gli aveva prolungato la vita.

Dopo questo fatto misterioso e tremendo, in cui vediamo vincere la potenza dell'amore, ci sembrano quasi un nulla tutte le altre pene e malattie, compresi gli acciacchi della vecchiaia, che hanno accompagnato la sua lunga esistenza. Basti un accenno che togliamo dalle sue note personali del 1915: „Non ne posso più. La bronchite cronica mi fa tossire spesso e sputare sangue”. Aggiunge che, talvolta, ha rischiato di rimanere soffocato.

P. Dehon scrisse che Dio aveva preso sul serio il suo voto di vittima. Qualcosa emerge dalle sue note autobiografiche, ma nessuno potrà mai sapere fino a che punto.

Dare vita a una nuova congregazione significa anche stabilire delle sedi, aprire delle case. P. Dehon non era il tipo da impressionarsi per questo, anche perché disponeva di un discreto patrimonio ereditato dai suoi genitori.

Il primo guaio avvenne con l'incendio del collegio San Giovanni che distrusse due piani (1881). Poi con il decreto di soppressione dell'Istituto (1883) fu avviata la chiusura di alcune case, ma il peggio avvenne con le leggi antireligiose dei governi massonici di fine secolo e inizio del 1900 che comportarono l'espulsione dei religiosi dalla Francia e la confisca delle loro opere. Anche i dehoniani dovettero esulare in Belgio e in Olanda, abbandonando le loro case. In seguito, fu possibile riscattarne solo alcune, mentre le altre andarono perdute.

La congregazione si era riorganizzata e consolidata quando si abbatté il disastro della prima guerra mondiale (1914-1918). San Quintino è situata in un posto strategico al nord della Francia, non lontano dai confini con la Germania e del Belgio. Il passaggio della guerra ridusse a macerie tutte le case della zona. La cronaca dice che, quando P. Dehon, dopo tre anni di esilio, poté rimettere piede in Francia e si trovò davanti alle rovine delle sue case, non riuscì a trattenere le lacrime. Ma l'unica espressione che uscì dalle sue labbra fu questa: „Ricominceremo per la terza volta”.

Non solo ricostruirà, ma nonostante le precarie condizioni del dopoguerra, prese il largo con le prime missioni (Ecuador, Brasile, Congo). A tutt'oggi non riusciamo a capire come facesse, perché i suoi fondi personali erano prosciugati. Ma troviamo una frase rivelatrice: „Le risorse mancano, i benefattori vengono meno, occorre una fiducia cieca nella Provvidenza”.

Quasi tutte le sue case navigavano nei debiti, ma quando sentiva che un'impresa era voluta da Dio, non c'era difficoltà che lo fermasse. Qualcuno lo accusava di incoscienza, ma la sua fiducia nella Provvidenza di Dio non aveva limiti. Il che, naturalmente, non dispensava dai brividi di una fede messa a dura prova, ma che, magari all'ultimo momento, Dio non lasciava delusa.

Gesù lo aveva detto chiaramente che il chicco di grano, se vuole portare frutto, deve morire (cf. Gv 12,24). Per P. Dehon fu la soppressione, sia pure temporanea, della sua Opera. A nostra conoscenza, non esiste nella storia della Chiesa un fatto come questo: la soppressione di una congregazione nascente e, solo dopo tre mesi, fatta rivivere.

Come ciò abbia potuto accadere, appartiene alla storia. Perché non è qui possibile entrare nel groviglio di fatti, di fraintendimenti, di falsità calunniose, di ostilità che provenivano perfino da parte di alcuni padri dell'Istituto che hanno sollevato un tale polverone che più nessuno riusciva a distinguere il vero dal falso. Non vedendo chiaro nella situazione, il vescovo locale, mons Oddone Thibaudier (vescovo di Soissons), prima di concedere l'approvazione diocesana alle Costituzioni della nuova congregazione, ritenne opportuno chiedere consiglio alle istanze superiori. I punti interrogativi più preoccupanti derivavano dal fatto che la spiritualità della congregazione sembrava dipendere troppo da alcune presunte rivelazioni o visioni (Sr Maria di Sant'Ignazio e P. Taddeo Captier scj). Il Vescovo chiedeva solo un consiglio, ma purtroppo la pratica giunse a Roma, presso il Sant'Uffizio, il quale emise un decreto che disponeva la soppressione della Congregazione.

Per caso o per Provvidenza divina, il decreto che portava la data 28.XI. 1882, fu consegnato al Padre l'8 dicembre, festa dell'Immacolata: circostanza che certamente ha sostenuto il Padre nella terribile prova. Infatti, in una sua nota leggiamo: „Ho ricevuto questa sentenza di morte nella bella festa dell'8 dicembre…Dio sa quel che ho sofferto durante quei giorni di morte. Senza una grazia speciale, avrei perduto la ragione o la vita”.

Quali erano le decisioni romane?

In pratica l'Opera doveva essere smantellata, perché essendo fondata su rivelazioni non autentiche, era priva di fondamento e di credibilità. P. Dehon doveva lasciare, se possibile, la diocesi e Sr. Maria di sant Ignazio doveva essere trasferita ad altra casa del suo istituto.

P. Dehon aveva costruito nella ferma convinzione di rispondere a una chiamata divina ( ricordiamo che era stato confermato anche da San Giovanni Bosco). Ora non gli rimane più nulla. E' il suo „consummatum est”. Non cerca difese o giustificazioni, che pure non mancavano, ma piuttosto attribuisce ogni colpa a se stesso. In mezzo alla totale desolazione rimane in piedi un'unica convinzione: accettare fino in fondo la sua condizione di vittima.

P. Dehon va in chiesa e, davanti al Santissimo scrive di getto, senza correzioni, una lettera al suo Vescovo in cui traspare la statura e la qualità della sua spiritualità. „Nostro Signore - egli scrive - mi chiede ora di distruggere ciò che mi ha chiesto di costruire”. La sofferenza è mortale, ma „la morte sarebbe cento volte meno…Tutto è spezzato e distrutto: l'onore, le risorse impegnate, la speranza e più di quello che io possa esprimere. Ma quello che mi tortura più di tutto, è un pensiero al quale non mi posso sottrarre: Nostro Signore ha voluto quest'Opera, io l'ho fatta fallire con le mie infedeltà”.

A collocare queste parole nel contesto tragico in cui furono scritte, sbalordiscono. In mezzo a tale desolazione, solo due cose gli rimangono in piedi: la fede per vedere gli avvenimenti nella luce di Dio e l'umiltà di attribuire solo a se stesso il fallimento.

Ed ecco come conclude la lettera: „Quanto a me, Monsignore, la prego di non occuparsi della mia persona. Sarò fin troppo contento di potere, con tutte le umiliazioni e distruzioni, riparare le mie mancanze del passato e offrire qualche compenso a nostro Signore”. Non gli rimane che rimettere nelle mani del Vescovo tutta la sua disponibilità: „Io farò tutto quello che vostra Eccellenza mi comanderà di fare in nome della santa Chiesa e quando lo vorrà”.

Questa lettera, vergata in un contesto così drammatico, rimane come un monumento incrollabile che testimonia tale fede, umiltà e obbedienza che obbiettivamente tocca l'eroismo.

A colmare la misura, proprio in quegli anni (1882-1883), a distanza di un anno tra di loro, muoiono suo padre e sua madre.

E' ridotto nella polvere come Giobbe, ma non lo imita nella sua autodifesa. Egli rimane come vittima sull'altare, in espiazione dei suoi peccati e „per offrire qualche compenso a nostro Signore”.

Per P. Dehon tutto è finito, ma non nei disegni di Dio. Ancora una volta si avvera la parabola del chicco di grano che muore per dare la vita. Non passano tre mesi che un altro decreto del Sant'Uffizio decide la risurrezione dell'Opera (28 marzo 1884). Il Vescovo, infatti, si precipita a Roma, fornisce le doverose spiegazioni e il risultato è immediato. Il nuovo decreto precisa che la soppressione non era dovuta a colpe di persone, ma all'essere fondata e governata sulla base di pretese rivelazioni. Perciò, eliminate queste, la Congregazione poteva riprendere, però sotto nuovo nome: non più Oblati, ma semplicemente Sacerdoti del Sacro Cuore.

„Sono io che do la morte e faccio vivere, io percuoto e io guarisco” (Dt 32,39). Il Padre commenta: „era la vita sofferente, ma la vita”. Una vita nuova, ma purificata, perché Dio trae sempre il bene anche dal male. Ma quanto avranno contato davanti a Dio le sue atroci sofferenze?

Grazie a Dio, l'Opera rinasce, ma inevitabilmente una prova come questa lascerà dietro di sé delle tracce sanguinanti sia su P. Dehon e sia sull'Opera stessa. Infatti, stranamente il dossier depositato al Sant'Uffizio rimarrà come un macigno a impedire l'approvazione della Congregazione e ci vorrà un intervento diretto e personale di Pio X a superarlo (decreto del 04.07.1906).

A questo punto, possiamo dire di aver percorso tutte le stazioni della Via crucis, compresa quella della risurrezione che ormai siamo soliti aggiungere dopo la morte e la deposizione nel sepolcro. Abbiamo raccontato dei fatti crocifiggenti e non era difficile intravedere lo stato d'animo sanguinante di P. Dehon che vedeva in essi l'attuazione del suo voto di vittima. Rimane, tuttavia, ancora aperto un capitolo che faccia comprendere meglio quelle sofferenze morali che sono meno visibili ma, per molti aspetti, sono peggiori delle altre.

La personalità di P. Dehon era eccezionale e la sua bontà esercitava, su chi lo conosceva, un fascino pieno di deferenza e di amore. Era chiamato normalmente „le très bon père” (il buonissimo Padre), ma molti, anche nel suo Istituto, non riuscivano a comprenderlo. Tanto è vero che è mancata tra di noi una forte tradizione centrata su di lui.

A spiegazione di questo possiamo dire che in P.Dehon c'erano due aspetti contrapposti: da una parte, un carattere semplice e lineare e, dall'altra una versatilità vulcanica che riusciva a mettere in cantiere contemporaneamente molte e diverse iniziative. Da qui derivavano due diverse reazioni: all'esterno della sua cerchia era portato in palma di mano, specialmente per la sua competenza e le sue iniziative in campo sociale; all'interno della sua Opera, invece, si criticavano le sue frequenti assenze e causa dei suoi numerosi viaggi e la partecipazione a molti congressi, per cui la sua guida appariva un po' troppo evanescente. Questo aspetto non si può negare e lo si spiega anche con il fatto che P. Dehon era lontanissimo dal praticare una leadership dirigistica, non metteva mai in primo piano la sua persona, si fidava di tutti fino, talvolta, all'ingenuità. Per tutti doveva bastare l'ideale dell'amore e della riparazione. Ma, purtroppo, gli ideali sono sempre al di là della realtà con la quale, in concreto, si deve fare i conti, raccogliendo spesso amarezze e delusioni.

1) Difficoltà dall'esterno dell'Istituto

La fama di P. Dehon, prete sociologo, varcò ben presto i confini non solo di San Quintino, ma anche della Francia. Non si deve pensare, però, a un plauso universale. Ad esempio, l'ascesa di questo giovane cappellano, nominato canonico onorario a soli 33 anni, non gli risparmiarono invidie e critiche all'interno del presbiterio della città. Anche da parte dei Vescovi della diocesi, alcune volte prevenuti da informazioni negative e calunniose, gli vennero parecchie difficoltà sia nei rapporti personali e sia nell'attuazione delle sue opere.

Quando, poi, si diffusero delle calunnie che gettavano fango sulla sua moralità e poi quando si giunse perfino alla soppressione della sua Congregazione, si può dire che nella sua patria tutta la sua fama, se non fu azzerata, ebbe sicuramente un forte tracollo.

A Roma, invece, le sue grandi e numerose amicizie, compresa la stima dei vari Pontefici, rimasero intatte. Solo il Sant'Uffizio continuava ad opporsi all'approvazione delle Costituzioni, finché, come già abbiamo detto, non intervenne personalmente il papa San Pio X a spianare la via.

Sappiamo che P. Dehon uscì indenne da tante aggressioni messe in atto nei suoi confronti e della sua Opera, ma le umiliazioni che dovette subire furono tali da annientare anche la tempra più forte.

2) Difficoltà all'interno dell'Istituto

Nella storia della Congregazione vi è un capitolo molto amaro che riguarda i rapporti del P. Fondatore con alcuni suoi discepoli. Prendendo le parole da san Paolo, si potrebbe parlare di aggressioni da parte di „falsi fratelli”.

Alla luce degli eventi, non si può negare che P. Dehon avrebbe dovuto essere più prudente nell'accogliere nell'Istituto certe persone. Ma il suo carattere era di una semplicità estrema, ottimista per natura, in tutto vedeva sempre gli aspetti positivi. Così tra i primi sacerdoti che vennero a far parte della Congregazione, alcuni avevano alle spalle delle esperienze poco felici in altri istituti, altri invece avevano un carattere problematico, instabile, presuntuoso, incline a illusioni mistiche. Poiché sia il bene come il male cerca sempre delle aggregazioni, ben presto il P. Fondatore si trovò di fronte a una spaccatura interna tra quelli che seguivano la sua linea spirituale di vita apostolica e quelli, invece, che volevano una spiritualità più contemplativa, quasi monastica.

Le divergenze divennero così radicali che gli oppositori giunsero perfino a tentare di destituire il Padre dalla guida della Congregazione. Era quanto di peggio potesse capitare a un fondatore.

P. Dehon prese atto della situazione e presentò le sue dimissioni che furono respinte a maggioranza. Non poteva, tuttavia, dimenticare che la fiducia nei suoi confronti era stata incrinata, per cui da allora in poi ad ogni capitolo generale presentava le sue dimissioni che venivano regolarmente respinte

Non è difficile immaginare lo stato d'animo del P. Fondatore, posto in balia di queste dolorose e incredibili vicende. Nei suoi scritti non troviamo altro che la sua offerta per l'amore e la riparazione, mentre i testimoni del tempo raccontano come egli trattasse sempre con benevolenza e disponibilità gli oppositori, alcuni dei quali se ne andarono dall'Istituto, mentre altri aprirono gli occhi e si rappacificarono chiedendo il suo perdono.

P. Dehon ebbe a dire che queste sofferenze furono anche più dolorose delle precedenti In alcune sue comunità il clima che si respirava nei suoi confronti era davvero pesante. E c'è da credergli, se nel suo Diario giunse a scrivere che si trovava bene solo a Roma (1896). Leggiamo infatti che Roma „è per me un angolo azzurro nel cielo nuvoloso, un'oasi nel deserto di questi anni abbastanza tristi”. Ma il massimo lo raggiunge scrivendo a uno dei suoi Padri: „Dite ai miei amici che non si inquietino per la mia sorte, amo Roma e vi abito felice. San Quintino è per me l'esilio, Roma è la mia patria” (a P. Falleur, lo stesso anno).

Espressioni del genere non possono uscire che da un cuore spezzato e per comprenderne tutta l'amarezza dobbiamo ricordare quanto aveva amato san Quintino e quanto di sudore, di energie e di risorse economiche vi aveva speso.

Dopo questa veloce carrellata sulle principali vicende dolorose che hanno travagliato la vita di P. Dehon, è necessario fare il punto. Non tanto per comprenderne, alla luce della fede, il segreto che ci riporta al voto di vittima, ma per cogliere meglio il volto della sua personalità umana e spirituale.

La prima impressione di questa lunga vita perennemente travagliata potrebbe far pensare al lamentoso profeta Geremia. In P. Dehon niente di simile. Anche quando il suo cuore sanguinava, all'esterno appariva sempre sereno, ottimista, perfino scherzoso. Nessun ripensamento al suo voto di vittima, ma anzi da esso traeva una forza incredibile, una imperturbabilità inalterata anche nelle situazioni più drammatiche.

Una delle virtù che più insistentemente raccomandava è l'abbandono nelle mani del Padre. La pratica di questa virtù non è possibile se non si è incontrato l'Amore. Questo è il suo segreto. Per lui, l'amore per il Cuore di Cristo era tutto e per lui tutto accettava e offriva per l'amore e la riparazione.

Uno degli aspetti più sorprendenti è la sua capacità, perfino nei momenti più cruciali, a concentrarsi in una continua attività di studio e di ricerca che si traducevano nella pubblicazione di numerosi scritti su argomenti di spiritualità, di sociologia e vario genere.

Per chi lo conosceva fu sempre „le très bon père”, ma fu necessario attendere gli ultimi anni per fosse circondato dall'amore e dalla deferenza di tutti i suoi figli spirituali.

Tutto questo, tuttavia, non può far dimenticare che P. Dehon per lunghissimi anni è stato come un albero spogliato di tutti i suoi rami, lasciato quasi solo, abbandonato da tanti amici, rinnegato perfino da alcuni dei suoi, aggredito da ogni parte, sconfessato da Roma, spogliato delle sue case. Davvero aveva perduto tutto, anche l'onore. Ma è proprio da questa drammatica situazione esistenziale che emerge la piena statura umana e spirituale dell'uomo e del Fondatore. Quando tutto crollava attorno a lui, egli si è piegato sotto il peso delle macerie, ma non è venuta meno la sua fede, ha sperato contro ogni speranza. E quando tutto sembrava rivoltarsi contro di lui, ha detto „fiat”, non ha incolpato nessuno, tranne se stesso, e ha sempre trovato la via dell'amore e della riparazione.

Se teniamo presente tutto questo, appare evidente che la Congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù è stata partorita nel dolore, è nata dalla croce. Noi siamo figli della eroica sofferenza di P. Dehon, accettata e offerta nella logica dell'amore. Le sue ultime parole sono state: „Per lui vivo, per lui muoio”.

Nel suo testamento spirituale ci ha lasciato in eredità il più prezioso dei tesori, il Cuore di Gesù, ma insieme abbiamo ricevuto anche l'eredità della sua santità che Dio ha fatto risplendere attraverso il crogiuolo della croce. Tanto ha potuto l'amore! E non si può ricevere questa preziosa eredità se non in ginocchio, tremanti di giusta commozione.

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