Intervista con p. Giuseppe Pierantoni scj,
16.04.2002

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Beppe, una settimana fa sei stato liberato. Pochi giorni, che però sono stati fitti di movimenti e incontri dopo sei mesi di solitudine.

Mi sembra già un tempo significativo, questa settimana passata dopo la mia liberazione. Perché ho dovuto incontrare tante persone. Sono stato improvvisamente gettato dalla vita dei poveri, isolati come se fossero fuori dalla storia dei popoli, ai margini della storia dell’umanità, nel cuore pulsante della storia. Ho incontrato i grandi della terra, la presidentessa delle Filippine, i politici più importanti, i capi dell’esercito e della polizia, e poi i capi della chiesa, l’arcivescovo di Davao, il vescovo di Pagadian, il nunzio apostolico, tutti i miei compagni, suore e preti etc. E adesso a Roma di nuovo farò questa esperienza, politici, uomini della chiesa. È un tempo intenso, diversissimo da quello precedente. E anche questo fa parte dell’esperienza, devo accettarlo, come mi sono abbandonato inizialmente all’esperienza del rapimento. Devo accettare anche questa esperienza che speriamo non duri troppo. Poi bisogna trovare l’equilibrio.

In questi primi giorni come torna il tempo del sequestro, in che modo è presente?

Adesso sono ancora nella fase della reazione a quello che è passato. Non ci penso troppo. Però se ritorna alla mia mente, torna come una esperienza sempre più positiva, sempre più serena. La dimensione drammatica è lasciata alle spalle, ormai dimenticata. Rimangono i volti di queste persone, rimane una loro fondamentale apertura, la loro gentilezza nei miei confronti. E quindi se li ricordo, prego per loro, prego con senso di gratitudine per quello che è successo.

Gratitudine per che cosa?

Gratitudine per questa esperienza che mi è stata donata. Io non l’ho cercata, non avrei mai avuto il coraggio di cercare cose del genere. Mi è stata data, mi è stata imposta. E allora capisco che viene da una sapienza superiore che è anzitutto quella di Dio che ha guidato tutta l’esperienza anche attraverso la collaborazione di uomini. Mi ha fatto fare sopratutto l’esperienza della precarietà, della povertà che è quella della maggior parte della gente di questa zona. E non solo: la maggior parte della gente nelle Filippine, nel mondo, vive così. Senza sapere cosa succederà domani, senza sapere se arriverà la sera per loro.

E questa esperienza di precarietà e povertà, in questo modo così radicale, non l’avevi fatta prima, durante gli anni del tuo soggiorno nelle Filippine?

No. Devo dire che un conto è vederla negli altri. E un’altra cosa è farla come persona. Vederla negli altri ti fa soffrire perché a volte ti senti impotente, ma hai ancora la tua vita, la tua stessa vita nelle tue mani. Invece in questi sei mesi ho fatto l’esperienza dell’impossibilità di gestire la propria vita, di non poter garantire il mio futuro, nemmeno il mio domani. È questa la cosa spiritualmente più grande che ho fatto. Finalmente ho capito cosa vuol dire l’abbandono, che è la parola e il valore chiave della nostra spiritualità dehoniana. Finalmente ho capito cosa significa la povertà, di cui Dio dice che è una beatitudine. Quindi sono entrato in una dimensione nuova, che credo abbia segnato la morte dell’uomo vecchio e la nascita (speriamo!) dell’uomo spirituale. Quella che sentivo già da anni, quella del “morire fuori dalle mura di Gerusalemme”, perché forse, rimanendo all’interno di una esperienza protetta, mai sarebbe stato possibile per me capire ciò che ho capito ora.

Ti ho visto qui a Roma qualche anno fa, poi in Albania. Ti ho visto dubitare, interrogare la tua missione personale, quella della chiesa, la stessa tua presenza nelle Filippine. Dopo un processo di discernimento sei tornato. Poi il sequestro. Ad un certo punto ho avuto questo pensiero sicuramente azzardato, anzi forse sbagliato del tutto, ho pensato: se tutto andrà bene, Beppe dirà che ci voleva proprio qualcosa del genere per te, in questa fase della tua vita religiosa.

È vero. Io devo dire che dall’inizio del rapimento ho sentito che non si trattava solo di una esperienza umana o politica, neppure religiosa in realtà, quanto di una esperienza spirituale voluta e guidata da Dio. Non so se è il caso di dirlo, ma avevo chiesto un segno al Signore, sconsigliato dal confessore con cui ho condiviso questo desiderio di un segno, perché ero arrivato a un punto di grande scontentezza interiore per quello che stavo facendo, quello che stavo vivendo. Quindi ho detto a Dio: “Per favore dammi un segno della tua volontà prima dello scadere dei dieci anni di permanenza nelle Filippine. L’11 dicembre 2001 sarà il decimo anniversario, dammi un segno perché, se non mi dai un segno, io alla fine dei miei tre anni di mandato qua tornerò in Italia.” E il Signore mi ha dato un segno, un segno molto, molto forte. E quindi questo mi ha chiarito molte cose. Durante il mio rapimento, tanto per fissare ciò che è passato dentro di me, ho sentito dentro una grande calma. Avrei voluto reagire istintivamente sul momento, poi, ho avuto il coraggio dell’abbandono.

In quale momento? Subito dall’inizio?

Dunque, quando sono entrati nel convento quei cinque rapitori per immobilizzarmi, in quel momento ho sentito rabbia, solo rabbia. Avrei voluto reagire, ma ho ricordato quello che era avvenuto a un prete missionario irlandese due mesi prima. Era stato ucciso nel tentativo di essere rapito. Perché lui aveva reagito. Quindi mi è venuta questa memoria davanti a me e ho pensato: “Lasciamo fare questa gente.” Usciti dal convento, abbiamo corso nel buio, ho perso i sandali, trascinato da quella gente, ho sentito solo questo desiderio di pregare che nessuno morisse, che non ci fosse spargimento di sangue. Finalmente siamo arrivati a una barca, ci siamo allontanati e lì ho trovato una grande calma, ho potuto parlare con uno dei rapitori che mi ha parlato abbastanza gentilmente. Allora lì in questa occasione ho sentito dentro di me questa voce che diceva: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi.” Quindi si trattava di scoprire il senso di una missione: non era tanto una esperienza che dovevo fare, ma una missione che mi era data. Poi ho sentito anche una voce che diceva la frase di Gesù: “Se uno ti chiede di fare un miglio con lui, tu fanne due.” Quindi disponibilità e gratuità, andare oltre il previsto. E la terza cosa che ho sentito dentro in questo periodo breve delle prime dieci ore del rapimento e del viaggio sulla barca, è stata questa frase, ed è la più importante. La frase che Gesù dice a Marta prima di aprire il sepolcro di Lazzaro e di farlo uscire: “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?” Questa frase mi ha suggerito che il progetto di Dio in questa situazione era di manifestare la sua gloria. E tutto quello che dovevo fare io era abbandonarmi alla fede, accettare la mia impotenza, sapendo che lui avrebbe manifestato la sua potenza. E questo mi ha guidato in tutta l’esperienza e mi ha aiutato a superare anche i miei sentimenti di rabbia, di dolore, di preoccupazione per la mia famiglia. Nella fede che lui avrebbe guidato e aiutato tutti gli altri fuori, soprattutto la mia famiglia.

Ascoltando i tuoi primi commenti dopo la liberazione, sicuramente c’erano persone che si sono commossi, ma probabilmente c’era anche chi era irritato, confuso di fronte alla tua esaltazione del sequestro come tempo di grazia. Aiutaci: Come distinguere qualcuno che non teme per la sua vita, perché non la apprezza e non la stima, e qualcuno che non teme per la sua vita, perché, pieno di amore per il dono della vita ricevuta, lo affida alle mani di Dio?

Questa domanda può aiutare a chiarire il conflitto che ho avuto dentro di me durante le prime ore. Io sentivo dentro di me la voce che diceva: “Tu hai il dovere di proteggere la tua vita, hai il dovere di tentare di dare dei problemi ai tuoi carcerieri, un dovere di combattere contro il male.” Come ho superato questa cosa che io ho sentito come una tentazione? Non era la voce dello Spirito, era la voce del mio egoismo. Prima di tutto, per la mia esperienza di obiettore di coscienza, ero abituato a pensare alla teoria della legittima difesa come una forma di tradimento dello spirito evangelico. Con il discorso della legittima difesa si sono di fatto dimenticate le istanze più profonde dello spirito di Dio nella storia della Chiesa. Tu hai il diritto di difenderti, per cui ti difendi dalle esperienze che Dio ti vorrebbe far fare. Non sei più l’agnello mandato in mezzo ai lupi ma sei un’altro lupo che combatte per la sua sopravvivenza. Quindi ho pensato che qui devo rinunciare a questo diritto di una legittima difesa: sto subendo un abuso, mi dovrei difendere, però accetto - più o meno liberamente - di abbandonarmi e di non difendermi. E questo è stato secondo me la chiave per una esperienza profonda. Credo che è questo che ha garantito la mia serenità, la mia salute psico-fisica.

Forse sarei adesso cattivo, arrabbiato, pieno di amarezza, dopo sei mesi di abuso. Invece sono sereno, contento di essere sopravvissuto, con un bel ricordo di tutto quello che ho vissuto, proprio perché ho superato, ho lasciato alle mie spalle questo diritto. In fondo mi sembra che questa sia la missione della Chiesa che è quella di rinnovare il sacrificio dell’agnello, Cristo, che è innocente e pronto a morire. Questo salva tutti, salva noi stessi, salva la storia dell’uomo dalla logica del diritto. Che è in fondo la logica di questi rapitori. Forse è anche la logica dell’Islam fondamentalista - la mentalità della legge. Se qualcuno riesce a vincere questo, emerge la grazia, la gratuità - perfino nei confronti del tuo oppressore. Mi veniva in mente ancora una frase di Gesù che dice: “Se pregate per chi vi vuole bene, cosa fate di particolare? Pregate per i vostri persecutori, allora sarete come il Padre vostro che è nei cieli.” E questa è la missione della Chiesa, essere come il Padre, essere liberi, gratuiti, pensare solo al bene, al bene dell’altro. Tutto il resto vi è dato in aggiunta. Questa era la mia logica.

Poi mi sono domandato: Non sarà che agiscano in me quei meccanismi psicologici (sindrome di Stoccolma), per cui la vittima si identifica con il pensiero del suo oppressore, come nel libro di Bettelheim sui sopravvissuti dei campi di concentramento, che parla proprio di questo atteggiamento delle vittime che legittimano la logica dell’oppressore. Però mi sono detto di no. Non credo che fosse così nel mio caso. Anche perché ho avuto una volta almeno un sentimento di segno opposto. In alcune situazioni di questo esilio ho manifestato un atteggiamento diverso da questo abbandono, quando, per stanchezza o per rabbia, mi sono rifiutato di obbedire e mi sono lasciato andare, e ho capito che non stavo facendo né il bene mio né il bene di quella gente. Mi sono arrabbiato molto perché avevo fame, ero stanco, mi avevano promesso che mi avrebbero portato qualcosa da mangiare e, dopo una settimana, mi portavano tre latte di sardine che mi sarebbero dovute bastare per non so quante settimane. Ho detto: “Ma smettetela, siete voi che volete uccidermi.” E questo ha creato sentimenti diversi in loro. C’era uno che si sentiva offeso, mi voleva picchiare, gli altri mi hanno difeso, però anche loro sono rimasti molto male. Come se io li avessi tradito. Allora ho capito che non bisogna mai tradire il bene che è nell’altro, anche se è un bene limitato. Se l’altro fa qualcosa di bene, bisogna che noi siamo fedeli a quel bene - anche se non è sufficiente per legittimare il suo comportamento. Però è importante per lui che diamo fiducia al bene che c’è in lui. Allora ho capito che non era un atteggiamento che veniva dallo Spirito, e il mio discernimento mi ha orientato di nuovo verso quella fiducia.

In situazioni simili le vittime corrono il rischio di vivere il loro dramma solo passivamente, non come attori attivi. Già i tuoi genitori in una loro lettera si dicevano convinti che “questo lungo tempo di prigionia serva perché p. Beppe possa fare del bene anche ai suoi rapitori”. Ci sei riuscito? Hai appunto vissuto lo stesso abbandono in modo attivo anziché passivo?

Esattamente. Dentro di me ho superato la logica del diritto. Per cercare di diventare attivamente utile nel rapporto con questi rapitori. Ho visto che pian piano si è creato un clima di fiducia. Per cui loro hanno condiviso con me i loro problemi personali, fino al punto di farmi sentire il loro cappellano, di esser ancora prete in questa forma strana, non per i cristiani ma per gli altri. Mi hanno parlato moltissimo dei loro problemi familiari. Sono quasi tutti sposati o sul punto di sposarsi, spesso hanno figli. Ma per la loro situazione possono raramente tornare alle loro famiglie e vederle. Addirittura mi hanno fatto scrivere sei lettere d’amore per loro. E poi i problemi politici, e anche religiosi. Mi hanno descritto la loro religione con molto entusiasmo. Mi sono accorto che c’erano dei punti in comune soprattutto al livello della fede, la fede di Abramo, la fede verso qualcosa che non si può conoscere perché appartiene al domani garantito solo dalle promesse di Dio, però si può credere e ad esso sacrificare tutto il proprio presente con generosità.. E questo è vero per questa gente che spera in un domani migliore, crede e accetta dei grandi sacrifici per andare verso qualcosa che essi sperano sia garantito da Dio. Questo domani migliore noi lo chiamiamo “Regno di Dio”, no?! È il manifestarsi della giustizia divina, è pace e unità, è vita eterna nel seno di Allah.

Ti avrebbero ucciso per qualche motivo?

No, credo di no.

Infatti, più che la paura che loro ti uccidessero c’era fra di noi la preoccupazione che la continua pressione dei militari, dei diversi gruppi di polizia, le difficoltà nelle trattative potesse portare alla tua morte e alla morte di chiunque.

Questo è stato il vero rischio. Però poi non si è realizzato, direi quasi miracolosamente. La pressione militare era evidente, soprattutto nella seconda parte della prigionia. I militari sono arrivati molto vicini al nostro campo per tre volte. In particolare il 29 gennaio, giorno del compleanno di mia madre. Sono arrivati a una trentina di metri da noi. Non si sentiva niente. Ma si sapeva dal giorno prima che erano nell’area. Eravamo pronti, la mattina, già prestissimo, eravamo pronti con lo zaino sulle spalle, le armi, tutti raccolti al centro di questa pianura dove eravamo nascosti. C’era il pericolo che i soldati passassero in alto, sulla cresta della montagna, e quindi che ci potessero vedere dall’alto. In realtà sono passati nel torrente che scorreva sotto. E così non hanno potuto vederci. Sono passati vicinissimi però. Dall’altro lato del torrente c’era l’altro campo dei ribelli che ci proteggevano, quindi i soldati sono passati in mezzo, ma hanno visto proprio niente, o non hanno voluto vedere. E non c’è stato scontro militare.

Tu parli di ribelli, i giornali spesso di guerriglieri, il vescovo di Pagadian all’inizio li identificava con ordinari criminali. Secondo te quale era il loro vero scopo?

Il loro scopo dichiarato erano i soldi, i soldi del riscatto. Per comprare armi per la loro difesa personale, e in prospettiva per realizzazione del loro obiettivo politico cioè la liberazione di Mindanao per essere indipendente dal governo di Manila.

Sei rimasto sempre con lo stesso gruppo?

Sempre con lo stesso gruppo.

E di questo gruppo mai secondo la tua conoscenza nessuno è stato ferito, ucciso nei numerosi scontri con i militari? Perché nei media quasi ogni giorno si parlava di membri del cosiddetto gruppo Pentagon arrestati, feriti, uccisi dai militari.

Io mai ho avuto coscienza che qualcuno del gruppo fosse ucciso. Però bisogna dire che molti di questo gruppo si sono allontanati nel frattempo. Infatti solamente sei del gruppo iniziale sono arrivati in fondo ai sei mesi di prigionia. Alcuni sono andati via e poi tornati, altri mai tornati. Solo sei erano presenti all’inizio e alla fine. Quindi io non so degli altri e dove erano rimasti. Alcuni mi hanno detto che andavano a combattere, però questo mi sembra ora piuttosto fare parte di quella commedia che hanno recitato con me facendomi credere di essere a Basilan e di essere dell’Abu Sayaff che combatteva contro l’esercito e contro gli americani presenti nell’area. Quindi mi hanno detto: “Andiamo a combattere contro di loro.” Posso dire che non ho mai sentito con i miei orecchi delle esplosioni, degli spari. Qualche sparo isolato, ma nessun combattimento.

Noi qui a Roma come in tanti altri luoghi abbiamo vissuto questa vicenda a modo nostro, diversissimo dalla tua prospettiva. C’è stata una prima fase: fino a dicembre, periodo intensissimo, nel senso che il ritmo di speranza e delusione era molto intenso. Poi. dopo i primi di dicembre cominciava una fase, in un certo senso più tranquilla, ma ancora meno certa. E tu? Per esempio in quel momento all’inizio di dicembre, quando si pensava qui che tutto fosse pronto e la tua liberazione fosse imminente. E poi niente. E questo si è ripetuto tante volte. E poi niente per molto tempo. Quei giorni all’inizio di dicembre anche per te erano giorni, non direi cruciali, ma nei quali si chiariva che, dopo la profonda delusione, bisognava fare i conti con una prigionia lunga?

Ho sentito esattamente le stesse cose anch’io. Inizialmente una speranza unita alla delusione molto intensa, poi intorno a dicembre una forte speranza quando mi hanno fatto registrare una cassetta e mi hanno promesso: “Ecco, in poche settimane uscirai.” Alcuni giorni dopo ho sentito il messaggio registrato della mia sorella alla radio. Messaggio nel quale lei chiedeva ai rapitori un atto di clemenza alla fine del Ramadan e di liberarmi per poter celebrare il Natale insieme alla mia famiglia. L’ho sentito in maniera puramente casuale, fortuita, e mi ha dato una gioia intensissima, ho sperato che veramente si realizzasse la possibilità di uscire prima di Natale per celebrare il Natale insieme ai miei compagni, a tutta la mia famiglia. E dopo la delusione, anche forte, una certa tristezza. Anche perché in quel momento fisicamente non stavo bene. Dopo, la situazione si è un po’ normalizzata. Ho capito che dovevo aspettare tempi lunghi. E così quando mi hanno fatto le fotografie in gennaio, non ho investito eccessivamente fiducia sulla cosa. Diciamo che il periodo successivo è stato piuttosto bilanciato. Non mi sono più lasciato prendere da troppe illusioni.

Il Natale - come l’hai vissuto?

Il Natale è stato un giorno, direi, non tanto bello. La notte è stata una delle notti più fredde di tutta l’ esperienza. Noi dormivamo sulle amache, quindi avevo a disposizione solo il vestito con cui ero stato rapito, una t-shirt leggera. Tra l’altro su questa t-shirt stavano scritte le due parole: DEHONIANI e FILIPPINE. Mi sembra provvidenziale che fra tanti vestititi possibili, nel momento del rapimento portavo proprio questo. Poi avevo un cambio militare, pantaloni e un pullover. Quella notte lì c’è stato un freddo terribile. Alle sette della mattina, quindi due ore dopo l’arrivo della luce del sole potevo ancora vedere il mio fiato. Perciò quella notte tutti, non solo io, abbiamo dormito poco. Poi, c’era niente da mangiare. A pranzo mi hanno dato un piatto di riso, il condimento era il sale, e a cena uguale: riso senza nient’altro. Inizialmente mi sono sforzato con la mia volontà a dare importanza alla celebrazione del Natale che andava oltre la mia situazione: Era nato Gesù per tutti. Quindi volevo essere felice, e ho cercato dentro di me: “Devo esser felice, devo essere felice.” E ci sono riuscito per alcune ore... però dopo ho sentito il peso di esser da solo. È calata un po’ di tristezza.

Se mai si può parlare di ‘giornate ordinarie’, come si svolgevano?

La giornata ordinaria era fatta di quasi niente. Al mattino loro si alzavano molto presto per la preghiera, io mi alzavo con loro per pregare anch’io. Generalmente non riuscivo a dormire tutta la notte. Mi svegliavo verso l’una o le due di notte. Troppo lungo, tutto sommato, il tempo di riposo e del far niente. Quindi pregavo, pregavo di notte e generalmente verso l’alba riuscivo di nuovo ad addormentarmi. Poi mi alzavo con loro. Le prime ore del mattino passavano praticamente senza fare niente, secondo la loro esperienza erano le ore più pericolose. I militari incominciavano a muoversi verso le tre o quattro della mattina fino alla metà della mattina. Quindi in quel periodo bisognava stare in silenzio, pronti, si aspettava in silenzio, chiacchierando un pochino sottovoce. Dopo metà mattina mi davano la possibilità di fare un bagno. Mi portavano un gallone con tre, quattro litri d’acqua. E questo era un momento molto bello per me, perché, lavandomi mi rilassavo, mi sentivo pulito. Però non sempre, di solito era un giorno sì, un giorno no. Dopo facevano qualcosa, quindi si mangiava qualcosa, anche il mangiare era un momento molto bello, anche se si mangiava poco. Si mangiava insieme, tutti lo stesso. E generalmente, se c’era qualcosa in più, veniva dato a me. E dopo, il pomeriggio era più libero, più rilassato. C’era più dialogo, più serenità. E una altra cosa ancora più bella era quando la sera verso le cinque veniva il fresco. I momenti più interessanti erano quando qualcuno dal di fuori veniva per portare cibo, dare delle notizie ecc.

Sei mesi sempre insieme con le stesse persone, mai uscendo da questo cerchio di un gruppo ristretto, sempre gli stessi rapporti. Hai avuto qualche contatto oltre questo gruppo, hai sentito la radio, hai avuto giornali?

No, giornali mai. Solamente il giorno in cui sono state fatte le fotografie in gennaio mi è stato portato il giornale che si vede sulla fotografia. E quel giornale me lo sono letto tutto, anche la pubblicità. Però loro non compravano il giornale, perché non leggono l’inglese, e poi erano gente semplice, analfabeti o semi-analfabeti. Quindi non erano interessati ai giornali. Hanno avuto per un certo tempo la radio, però si sentiva solamente due canali locali, quindi non era molto interessante. Poi in questi canali trasmettevano in lingue che io non capivo: Tagaloe, che è la lingua nazionale che io non conosco, poi cebacano, una lingua locale. C’era qualche soap-oper in sebuano, la lingua che io conosco, ho provato ad ascoltarlo, mi sono stancato molto presto.

E la comunicazione fra di loro era sempre nella loro lingua? Come per poter nascondere a te ciò che parlavano fra di loro?

Sì, lo hanno fatto sistematicamente. Non mi hanno fatto nemmeno capire quale fosse la loro lingua. Perché loro mi hanno fatto credere che fosse la lingua Yakan. Però mi hanno detto anche che usavano a volte altre lingue.

Probabilmente è stato meglio anche per te di non sapere chi sono stati, da dove sono venuti, di non conoscere nei dettagli l’operazione. Hai detto che hai pregato di notte, quando non riuscivi a dormire. Come si fa la preghiera in queste circostanze?

Diciamo, io ho sempre utilizzato il rosario. Ho pregato sempre i misteri, ascoltando per un attimo ciò che il mistero mi suggeriva. E mettendo una intenzione particolare a ogni mistero. Poi posso dire che ho ripetuto alcune intenzioni regolarmente ogni giorno. Ho pregato continuamente sempre dal primo giorno fino all’ultimo per la mia famiglia, per le persone più vicine di cui sapevo che stavano soffrendo molto per me, che il Signore le custodisse e facesse sentire la speranza. Poi per la mia missione dehoniana nelle Filippine, per tutta la congregazione, in modo particolare per le vocazioni, per la Chiesa di Pagadian e in modo particolare per il vescovo Mons. Jimenez, che si è rivelato poi il vero protagonista, la persona più equilibrata che si è mossa in questa situazione.

Ho pregato sempre anche per i rapitori, perché, intanto, non succedesse niente a loro, e néanche a me. E poi perché potessero maturare una visione di vita diversa. I loro sentimenti erano assolutamente negativi verso la realtà delle Filippine, verso la realtà politica e sociale. In parte io condivido, ma non completamente. Certo che con il loro comportamento non contribuiscono a un miglioramento della situazione. Ho chiesto al Signore che loro potessero essere illuminati, che potessero capire che solo le vie della pace sono utili. E poi ho pregato le parole di Gesù nel Getsemani: “Se è possibile passi da me questo calice, non la mia però, bensì la tua volontà sia fatta.” Nella certezza che appunto questo tempo di attesa era tempo di attesa della realizzazione del piano di Dio. Che dovevo avere fiducia, dovevo avere speranza e abbandono perché Dio stava compiendo la sua opera.

E la messa?

Per sei mesi non ho celebrato la messa. Per sei mesi non ho avuto una Bibbia a disposizione. Non ho avuto il breviario. Devo dire, devo confessare che avevo detto a Dio negli anni precedenti che ero stanco di messe, di sacramenti, e quindi Dio mi ha preso molto sul serio. Ha capito il grido che mi veniva da dentro e mi ha dato sei mesi libero, sei mesi di riposo sacramentale, un grande Sabato Santo, senza liturgia. È stata una esperienza bella, perché come ho detto, in questo silenzio liturgico sono emerse le parole di Gesù, che secondo me sono state veramente suggerite dallo Spirito Santo. Quindi non era più la Bibbia o la liturgia che mi suggeriva la mia spiritualità, ma lo Spirito stesso di Dio. Ero senza liturgia, ma non senza Dio, non senza la presenza di Dio.

Tu sei sopravvissuto, per te questa vicenda è andata bene, ma forse per te sarebbe andata bene anche morendo. E che pensare di Dio di fronte a persone in altre situazioni che però finiscono male? Tu puoi ringraziare adesso per la tua liberazione ma ci sono tanti altri...

Forse quello che dico adesso non risponde direttamente alla tua domanda, comunque... Io ho discusso con questa gente molte volte su ciò che è la libertà umana. I miei rapitori dicevano: “Non c’è niente che succede che non sia voluto da Dio.” Però nello stesso tempo loro dicevano: “Non si deve andare contro le leggi di Dio.” Quindi non riuscivo a capire secondo la loro mentalità come può essere che tutto succede secondo la volontà di Dio e nello stesso tempo si può andare contro le leggi di Dio. Dov’è la libertà umana? Prima vedevo le cose in maniera diversa, adesso mi sembra capire che l’uomo può consegnare la sua libertà; l’uomo è veramente libero, al punto che può totalmente andare contro la volontà e le aspettative di Dio. Però l’uomo può anche liberamente consegnare sempre di più se stesso a Dio. Che io oggi viva o che io oggi sia già morto, penso che in fondo questo non sia così importante. Io ho la certezza che tutto quello che mi accade devo cercare di viverlo in comunione con il Signore. Forse avrei vissuto in comunione con il Signore anche la mia morte. Comunque so che se non sono morto oggi, un giorno morirò. Quindi devo cercare di vivere il tempo che mi rimane continuando in questa profonda comunione con Dio. Mi sento un po’ come una persona a cui è stata data una seconda possibilità. E ripeto che l’espressione più grande della liberta umana è consegnare se stesso, la propria vita, a Dio.

Pare ovvio che una tale esperienza sia realizzata in tutte le sue dimensioni solo con il trascorrere del tempo. Solo adesso, un giorno dopo l’altro, saprai l’altro lato della medaglia: Tanti sforzi per farti uscire sano da questa vicenda, tante persone sconosciute che hanno passato minuti e ore nella preghiera per te, ed anche tante persone che hanno pianto per te: di speranza delusa, di disperazione, di gioia finalmente. Come pensi di integrare tutto questo, in fondo questo grande fiume d’amore nella tua esperienza?

Infatti ci ho pensato spesso. Mi sembra che faccia parte di questa esperienza di Dio, di Dio che ci ama infinitamente e che si dà tutto gratis, nel senso che noi stessi non meritiamo niente. A questo Dio si sono unite tantissime persone che gratuitamente, per solo amore, hanno pregato per me, hanno sofferto per me, hanno fatto sacrifici per me. Io mi sento in una condizione, che è in fondo la condizione di tutti gli esseri umani. Noi dipendiamo dagli altri, dall’amore degli altri e dall’amore di Dio. Io sono nella condizione di avere nessun dubbio che la mia vita dipende da Dio che mi ama e dagli altri. Quindi ho il privilegio, forse anche una missione, di fare capire che siamo interdipendenti, legati gli uni agli altri e a Dio. La nostra vita è un dono che si vede rinnovato ogni giorno nell’amore degli uni per gli altri. Sono un debitore, un debitore della mia vita a tutti.

Non risuona in queste numerose e diversissime iniziative di altri per te anche la verità evangelica che non c’è più grande amore che dare la sua vita per i suoi fratelli, le sue sorelle?

Forse era questo uno degli aspetti nel piano di Dio in questa esperienza che moltissimi hanno fatto: esperienza di preghiera, di sacrificio per un fratello che stava soffrendo. Hanno salvato me, lo posso dire, ma hanno salvato forse anche se stessi. Hanno fatto esperienza di come ci si può dimenticare per ricordarsi degli altri.

Hai detto di voler tornare nelle Filippine. Si conoscono pochi religiosi o preti che dopo una tale esperienza sono potuti ritornare al loro posto. Hanno visto troppo, conoscono troppa gente coinvolta nelle trattative, conoscono troppi luoghi che dovrebbero rimanere nascosti ecc. Già stai pensando al tuo futuro?

Adesso ho ancora molto entusiasmo. Voglio ritornare, vorrei ritornare a Dimataling, a Mindanao. Però forse è più prudente rimanere fuori per un po’ di tempo. Vedremo. Comunque ritornerò. Dipende anche dal nostro gruppo, dai superiori. Magari tornerò, ma in altri posti, in un’area più lontana.

Ho offerto a Dio la mia disponibilità ad aiutare nel futuro, se lui vuole, alcune di queste persone a normalizzare la loro vita. Soprattutto alcuni giovani di 17, 18 anni. Che mi hanno detto: “Padre questa vita non ci va bene, vogliamo studiare.” Chissà che un giorno non possa essere io utile ad alcuni dei miei rapitori, a Dio piacendo.

Mi piacerebbe soprattutto rivedere colui che io chiamo ‘Comander Ustad’ (significherebbe laico impegnato nella religione), cioè uno dei comandanti del gruppo che mi ha tenuto. Un uomo che conosceva molto bene la sua religione e che mi ha mostrato dei sentimenti molto belli rispetto alla religione e anche nei miei riguardi. Mi è piaciuto dialogare con lui sulla sua religione. Se i fondamentalisti islamici fossero tutti come lui, penso che non ci sarebbe nessun motivo di dover aver paura dell’Islam. Ha anche cercato di aiutarmi. Naturalmente anche lui ha seguito la strategia del gruppo, però sempre è stato onesto dicendo: “Di questo e questo non posso parlare.” Ha agito correttamente con me, mi ha sempre tenuto in vita con la speranza e mi ha confermato che la fede islamica è fede abramitica, quindi profondamente affine alla fede cristiana. In lui ho sentito questo. In lui ho riconosciuto questa stessa esperienza di fede.

Se tu parli di fede abramitica, che sarebbe un punto d’incontro tra fede cristiana e musulmana, come la descriveresti?

Questa gente accetta tutto il peso dei comandamenti della loro religione, che sono molto esigenti, solo perché credono e obbediscono a Dio con fede semplice. Nella prospettiva cristiana sarebbe come San Francesco che diceva: accogliere il vangelo “sine glossa”, senza farsi dei ragionamenti. Una fede che fa dire: si, io non capisco, però Dio sa, Dio sa cosa è bene, cosa è male per me. E se faccio sacrificio, Dio mi garantirà la fecondità di questo sacrificio. È questa la struttura della loro fede. A modo mio vale questa esperienza e pratica di fede anche per me: Per esempio in tutti quei sei mesi io so che Dio stava preparando qualcosa di nuovo. Adesso, dopo esser uscito, capisco che ha avuto senso aspettare sei mesi perché tutto potesse essere portato da Dio a compimento.

Ho letto nelle tue prime interviste che il contatto con la natura ti è piaciuto tanto. Addirittura sembra che fisicamente, grazie a questa esperienza di natura pura, stessi meglio di prima.

La prima consolazione è stata per me Dio e la preghiera. La seconda consolazione è stata la bellezza della natura. Una cosa stupenda. I primi due mesi siamo stati vicini alla costa in una foresta di mangrovie. Questi alberi che crescono nell’acqua del mare. Quindi un ambiente marino con tanti pesci che passavano sotto i nostri piedi, tanti uccelli belli. Abbiamo vissuto come le scimmie, sugli alberi, per due mesi. Poi ci siamo mossi nell’interno, siamo andati nella foresta fluviale con grandissimi alberi, altri tipi di animali. Ci siamo mossi molto anche dentro questa foresta. E tutto mi sembrava così bello, non riuscivo ad aver paura anche quando questa gente camminava in assetto di guerra. Perché tutto intorno a noi parlava di pace, di amore, dell’abbondanza dei doni di Dio per noi. Mi è capitato anche tante volte di condividere quei sentimenti con i rapitori. Ricordo ad esempio un uomo, l’unico anziano di tutto il gruppo, forse verso i 60. Alla sera c’è stato un periodo in cui avevamo un po’ di tempo per chiacchierare, ci sedevamo e guardavamo la sera che arrivava, le luci del tramonto, le stelle che venivano fuori, il fresco, i canti degli uccelli. C’è un uccello che canta sempre. Alla mattina presto sembra che gridi: “Bisogna alzarsi!”, e poi la sera torna a cantare con lo stesso tipo di grido, ma questa volta: “Preparatevi che arriva la sera!” L’anziano mi diceva: “Padre, chi è che comanda al sole, alla luna, chi ha fatto queste cose bellissime. Non è Allah?” Gli dicevo: “Certo.” Ma lui non lo diceva con l’atteggiamento di indagare i miei sentimenti. Lo diceva proprio con lo spirito contemplativo. Bellissimo. Mi ha commosso. Anche perché questi sentimenti erano perfettamente gli stessi in lui e in me.

E se lui diceva Allah, lui non intendeva dire: “È Allah, e non il tuo Dio?”

No, credo di no. Credo che anche loro avessero la chiara percezione che il nostro Dio è lo stesso. Naturalmente a volte siamo stati tentati di discutere di teologia. Soprattutto è capitato con una persona che è venuta dal gruppo esterno. Probabilmente aveva studiato qualcosa di teologia cattolica e me l’ha proposta con senso di sfida. Io per un po’ ho accettato la sfida, tanto per cambiare, per divertimento. Dopo mi ha voluto trascinare in una discussione sulla Trinità. Però in questo non sono voluto entrare. Ogni discorso su Dio parte da una scelta di fede, e se non condividiamo questo stesso punto di partenza, cioè la fede islamica o la fede cristiana, rischiamo di litigare senza arrivare a capire di più l’altro nella sua esperienza di Dio.

Quindi, secondo te, non sei stato solo tu a scoprire qualcosa della loro fede, ma anche loro hanno potuto, sebbene forse in modo non riflettuto, scoprire qualcosa in comune fra la loro e la tua fede?

Esatto. Almeno è quello che io spero, non ne ho la certezza. Spero che alla fine abbiano anche loro sentito una certa forma di fraternità con me, di comunione, garantita da Dio. Per loro i cristiani sono i fratelli maggiori, come per noi gli ebrei. Li precediamo, quindi i cristiani non hanno la completezza della rivelazione che raggiunge la pienezza nel Corano, secondo loro.

Le circostanze della liberazione sono rimaste un po’ oscure. Per noi è stato un momento molto inatteso. Come è accaduto?

Posso dirti che circa due settimane prima della liberazione quel ‘Comander Ustad’ era tornato dopo un mese di assenza, all’improvviso, dicendo: “Padre, io non pensavo più di ritornare nel gruppo. Ma improvvisamente sono stato di nuovo coinvolto nelle trattative. Sembra che finalmente il governo sia coinvolto e questa volta sia la volta decisiva. Si tratta ora di scrivere questa lettera e di registrare una cassetta con le condizioni che chiediamo” (la lettera del 16 marzo). Quindi il mercoledì santo improvvisamente al mattino sono stato informato che sarei stato liberato. Finalmente liberato! Stavamo aspettando qualcuno da fuori che venisse a prendermi e a portarmi via. Abbiamo aspettato troppo. Alla sera alle quattro mi hanno fatto partire. Non sono nemmeno riuscito a salutare tutti. In quel momento pensavo che fosse la partenza per la liberazione. Sono partito con un piccolo gruppo di persone, forse una decina. Abbiamo camminato velocissimamente per tre ore. Mi avevano tolto tutto, non mi avevano dato niente in mano per facilitare il cammino. Loro invece con gli zaini e le armi. Un cammino molto faticoso. E poi siamo arrivati a un punto dove non era possibile passare. Mi hanno detto: “Ci sono dei soldati, non possiamo passare.” Ci siamo ritirati, ancora un cammino di un ora per trovare un posto per la notte. Abbiamo dormito lì e la mattina presto siamo tornati al campo. Giovedì Santo. Quindi fallito di nuovo.

Poi di nuovo, improvvisamente, la Domenica 7, la Domenica in Albis, sono stato informato che dopo il pranzo saremmo partiti. All’una tutto il gruppo si è mosso insieme a quelli che rimanevano dell’altro gruppo. Eravamo circa 35 in tutto. Abbiamo camminato dall’una fino alle sei, però rispetto al Mercoledì Santo cambiando percorso. Ci siamo fermati tutti a un punto e ho mangiato quello che era stato preparato al pranzo. Sono stato liberato dalle cose che portavo con me. Alle 6.45 di sera sono partito con un gruppo ristretto più due guide che venivano da fuori. Eravamo circa una decina. Ho camminato dalle sette fino all’una di notte. Un camino molto faticoso, molto difficile, così che quasi mi ero arrabbiato pensando che non ce l’avremmo fatta. Perché poi è successo che una parte del gruppo si era persa. Dovevamo fermarci per aspettare quella gente. Pensavamo di avere l’appuntamento alle undici, ma a questa ora eravamo ancora lontano dall’obiettivo. Dopo ho capito che forse il punto dell’appuntamento era molto più lontano di quanto pensavano loro. Abbiamo camminato, camminato, camminato. Poi ho potuto parlare con quello che comandava il gruppo. Alcuni avevano rinunciato a continuare con noi perché erano stanchissimi anche loro. Avrebbero dovuto ritornare indietro per evitare di essere presi dalla polizia. E io ho detto al comandante: “Guardi, non pensi che io possa ritornare indietro. Io sono stanchissimo. Io posso andare solo avanti, non ho né la forza psicologica né quella fisica di tornare indietro, ho solo la forza psicologica per andare avanti. O mi liberate questa sera o non mi libererete più. Quindi, io voglio andare avanti. Altrimenti non collaborerò più con voi, quindi cercate di arrivare all’obbiettivo. Nessun ritorno!” Forse alla fine anche questo mio atteggiamento avrà avuto il suo peso.

Loro potevano tenersi in contatto con qualcuno esterno attraverso il telefono satellitare. Probabilmente erano in contatto con quella ambulanza che poi sarebbe venuta a prendermi. Finalmente circa all’1.30 o 1.45 di notte siamo arrivati vicino a una strada. Hanno chiamato l’ambulanza. Mi hanno fatto cambiare. Mi hanno dato altri vestiti, mi hanno controllato, mi hanno tolto tutto quello che avevo. Avevo per esempio dei proiettili che mi erano stati regalati e che volevo portare con me come ricordo. Tutto tolto. Mi hanno lasciato solo le chiavi del convento. L’unica cosa che ho portato dall’inizio fino alla fine: un portachiavi con una immagine di San Giuseppe e di Gesù che lavorano nella falegnameria. Alle due circa è arrivata l’ambulanza. Il comandante mi ha preso per mano. Nell’ambulanza c’erano cinque uomini che si sono dichiarati della polizia. Due o tre venivano da Manila. E altri due o tre erano della polizia della zona. Il comandante mi ha fatto correre sulla strada, lui insieme a me. A distanza si era fermata l’ambulanza. Sono uscite tre persone. Ci siamo incontrati. Uno della polizia mi ha preso immediatamente, mi ha accompagnato rapidamente verso l’ambulanza. Un secondo si è messo dietro a noi e ci ha scortato. Circa un minuto dopo l’incontro siamo partiti con l’ambulanza.

Poi abbiamo fatto quattro ore di macchina. Siamo arrivati a Dipolog City, verso le sei del mattino. Ho potuto fare colazione. Mi hanno fatto incontrare varie personalità della polizia. Poi un piccolo controllo medico e dopo circa 45 minuti mi hanno fatto salire su un piccolo aereo della polizia e siamo andati a Manila. A Manila ci siamo fermati all’aeroporto, abbiamo incontrato dei politici. Mi hanno detto: “Padre adesso andiamo ad incontrare la presidentessa. Incontrerà insieme alla presidentessa i giornalisti. Per favore non faccia grandi discorsi, dica solo grazie per non farsi strumentalizzare.”

Infatti le notizie della tua liberazione erano abbastanza drammatiche: si parlava di combattimenti, della pressione dei militari sul gruppo, e che i rapitori ti avrebbero lasciato libero per sfuggire poi.

In realtà è stato molto più calmo. Può darsi che i militari abbiano fatto pressione perché effettivamente c’era una certa paura che i militari arrivassero. Durante l’ultima settimana siamo arretrati varie volte, abbiamo cambiato luogo varie volte l’ultima settimana. E poi mi è stato confermato dalla stessa gente del gruppo che quattro di loro erano stati arrestati. E c’era la paura che questi parlassero. Quindi può essere che ci fosse una pressione militare che abbia facilitato la liberazione.

Superato un momento difficile nella vita, c’è chi riesce a scoprire il messaggio, la chiamata che ci offre Dio nel vivere la sofferenza, l’angoscia, l’insicurezza - a volte in una sola frase. Potresti e vorresti dire quale è il messaggio che Dio ti ha rivolto attraverso questa vicenda?

Io per questo ritornerei alle frasi, agli slogan della nostra spiritualità. Per me la frase decisiva è: “abbandono”. Abbandono che è il modo più vero, più profondo, più efficace perché si realizzi l’altra aspettativa della nostra spiritualità: “Adveniat Regnum Tuum”, perché si realizzi il regno di Dio. Noi non dobbiamo solo convertirci dai nostri difetti, dai nostri egoismi, dobbiamo convertirci anche dalle nostre virtù. Occorre, in una spiritualità pienamente matura e adulta, che siamo totalmente abbandonati nelle mani di Dio, nel grande mistero della povertà, della insufficienza, della propria riconosciuta incapacità di autogestirci. Cosa che io ho sperimentato in pienezza in questi sei mesi. Io sono stato una persona attiva nella mia vita, sono stato protagonista della mia vita. In questo momento, dove ho sperimentato una completa impotenza in tutto, perfino a garantire il mio futuro, il mio domani, io sono diventato finalmente uno strumento. “Quando io sono debole, è allora che sono forte” - Questa frase di San Paolo riassume l’esperienza cristiana adulta.

Non hai paura che, dopo questo tempo forte, sarà molto difficile vivere le tue scoperte nella vita quotidiana, religiosa, fraterna?

È verissimo. Sarà la prova, il test che l’umiltà raggiunta in questi mesi sia diventata una condizione stabile in me. Vedremo. Io però ho fiducia in questa possibilità.

Io credo di esser stato fortunato di essere stato consegnato nelle mani di un gruppo fondamentalista. Non parlo di tutti i fondamentalisti. Se io fossi caduto nelle mani di una semplice kidnapping-gang, io probabilmente a questa ora sarei morto. Invece sono caduto nelle mani di persone che dicevano: “Noi sappiamo che c’è Uno sopra di noi. Sappiamo di aver fatto un peccato in termine di legge e di comandamenti.” Per spiegarmelo mi dicevano: “Per noi è anche vietato mangiare carne di maiale, però il giorno che moriamo di fame ce lo mangeremo. Perché il primo comandamento è sopravvivere. Il secondo è obbedire agli altri comandamenti. Quindi ti abbiamo rapito perché abbiamo bisogno di sopravvivere, di comprare armi per la nostra difesa e per la realizzazione del nostro obiettivo, cioè la liberazione di Mindanao dal governo di Manila. Sappiamo che è un abuso, ma cerchiamo di non aggiungere a questo altri abusi.” Così sono convinto che nel caso che io fossi caduto nelle mani di gente per la quale Dio non è una realtà della loro vita quotidiana, sarebbe andata molto peggio per me.

Nella sua lettera alla Famiglia Dehoniana dopo la tua liberazione il p. Generale ha già identificato alcuni punti che rivelano la fecondità dell’esperienza del tuo sequestro per tutta la Famiglia Dehoniana. Che pensi tu, quali potrebbero essere i frutti di questa esperienza al di là della tua sola persona?

Infatti di questo tempo come un tempo di grazia ne ho già parlato abbastanza. Penso che questo sequestro, che non era solo una esperienza mia ma di tanti altri, potrebbe aver magari un significato per la nostra missione nelle Filippine. Abbiamo trascorsi negli ultimi anni momenti difficili nel nostro gruppo. Forse questa esperienza comune potrebbe aiutare a purificarci e riconciliarci. Al di là della gioia per la liberazione dovremo forse come gruppo continuare a interrogarci sul messaggio di Dio per il nostro gruppo.

Poi credo che anche a livello di chiesa locale vi siano qualche fecondità di questo sequestro. Donne e uomini di diverse confessioni cristiane si sono radunati per pregare per la mia liberazione. Lo hanno fatto per la prima volta nella loro storia. E adesso continuano a radunarsi pregando per tanti altri in simili situazioni difficili.

Inoltre ciò che è accaduto ha forse aiutato a chiarire ai nostri giovani candidati alla vita religiosa che questa scelta non è ricerca di benessere, di tranquillità e di sicurezza, bensì comporta un rischio, quello di seguire il destino del ‘Maestro’ povero e crocifisso.

È importante per me e per tutti di vedere questo avvenimento con gli occhi della fede, cioè non solo come un dramma superato, ma come un tempo di grazia il cui senso ogni singolo e ogni gruppo è invitato a scoprire.

(intervista fatta da p. Stefan Tertünte scj)